Quantcast
Channel: Sviluppo pacifico – Pagina 136 – eurasia-rivista.org
Viewing all 73 articles
Browse latest View live

L’Autunno egiziano

$
0
0

 

 

Esiste la Primavera egiziana? Forse ciò che è accaduto in Egitto è stata, piuttosto, la solita rivolta che porterà a un nuovo regime assolutistico. Il concetto di rivolta è associato nel mondo vicino-orientale all’idea di cambiamento, perché non sembra esisterebbe altra forma per sostituire i vertici del potere. Democrazia e forme democratiche di elezione appaiono ancora lontane. Il massacro dei copti è un segnale di questo fenomeno consuetudinario che si manifesta da molti decenni: maliziosamente, però, esso viene ignorato dalla comunità politica internazionale, la quale preferisce curare in Egitto i propri interessi economici e geopolitici. Una visione ottimista nei confronti degli avvenimenti egiziani, quindi, sembra impossibile: ecco perché sembra poco adeguato parlare di Primavera egiziana.

 

Non è possibile fare un elogio della cosiddetta Primavera egiziana, anzi sarebbe un errore chiamarla così. Vale lo stesso per quella tunisina (sebbene le votazioni del 23 ottobre 2011 lascino sperare in una svolta definitivamente democratica), per quella libica (che nonostante la caduta di Sirte e l’uccisione di Muʿammar al-Qadhdhāfī, tuttavia, deve ancora dimostrare di essere tale) e per quella yemenita e siriana che ancora stentano a realizzarsi. La Primavera egiziana, e in generale quella araba, è osannata come una rivoluzione dai media, dall’opinione pubblica internazionale, ma soprattutto dalle popolazioni stesse che la vivono, eppure sfugge la grande differenza fra i risultati di una rivoluzione e quelli di una rivolta: una rivoluzione porta ad un cambiamento drastico, una trasformazione notevole che non riguarda solo al-kibar, cioè i “pezzi grossi”, la classe politica, ma colpisce anche le fondamenta della comunità “rivoluzionata” e le sue strutture sociali, politiche, economiche e culturali (e anche religiose). Rivoluzione è stata quella iraniana, nella quale una concomitanza di fattoricome sviluppo economico di tipo capitalistico, debolezza politica della monarchia, contesto internazionale favorevole e creazione di simboli su cui l’opposizione è riuscita ad aggregare le masse -, ha potuto imporre un nuovo modello di Stato (quello islamico-teocratico), con un nuovo modo di vivere, e un nuovo modo di relazionarsi con l’estero. Escludendo l’atto rivoluzionario in sé che ha portato alla caduta della monarchia, la fase successiva (la rivoluzione sociale, politica e culturale) non è stata una rivoluzione proposta dal basso, ma imposta da un gruppo di leaders intraprendenti.

Inoltre, come ci sottolinea James L. Gelvin, «dalla Rivoluzione francese in poi, i movimenti rivoluzionari hanno lottato per il potere allo scopo di realizzare una visione utopica di una nuova società basata su un’ideologia modernizzatrice». 1

La rivolta, invece, conduce solo a un cambiamento della classe politica dirigente. Quindi la Primavera araba è “solo” una grande rivolta: infatti, sebbene, come sostengono le «teorie congiunturali-multicausali», vi siano stati tanti fattori che hanno portato al movimento popolare (crisi economica, diffusione dell’uso di internet e, particolarmente, del Web 2.0, situazione favorevole a livello internazionale, simboli comuni che hanno dato compattezza all’onda rivoltosa, debolezza del leader rispetto al contesto internazionale, rafforzamento dell’opposizione), alla rivolta araba manca l’ideologia, manca cioè quel tentativo di cambiare culturalmente, socialmente e anche politicamente ed economicamente il Paese. E’ stato un mero cambiamento di al-kibar. A meno che tale ideologia non emerga in seguito per esempio sulla base di un certo fondamentalismo islamico.

 

Meccanismi di presunta Primavera

 

È vero che nella società egiziana sembrano intravedersi forme democratiche, come le elezioni dei sindaci e di rappresentanze. Ma sebbene Ugo Tramballi sostenga che «gli egiziani scelgono i loro rappresentanti e l’antica paura del potere si trasforma in fiducia»,2 lo studio della storia insegna, invece, ad essere molto più cauti in tal senso. Infatti, forse tutto ciò rischia di essere solo un’illusione e lo stesso Tramballi afferma che «oggi in Egitto è in corso un processo degenerativo in concorrenza con uno creativo». 3

Forse quello che viene definito da Fred Halliday il «narcisismo regionale»4 dei popoli arabi, una versione vicino-orientale dell’eccezionalismo statunitense, ha contribuito a creare nella popolazione egiziana e di conseguenza nella percezione internazionale degli avvenimenti egiziani una sorta di amplificazione impropria della rivolta.

E’ stato raro o, per una visione pessimistica, non è mai accaduto che una rivolta in un paese autoritario abbia portato immediatamente alla democrazia. Ne sono chiari esempi le vicende storico-politiche di molti paesi africani mediterranei e sub-sahariani, ma anche del Vicino Oriente, dove la rivolta da sempre è stato unico strumento per un cambio di potere.

Se si prende in considerazione la Siria, nella sua seppur breve storia nazionale, si possono contare circa venti colpi di stato, ognuno conclusosi in un regime autoritario, e, solo l’ascesa al potere di Ḥāfiẓ al-Asad nel 1971 (cui è succeduto nel 2000 il figlio, attraverso elezioni discutibili per quanto riguarda la loro democraticità), ha dato ad un paio di generazioni siriane la possibilità di non conoscere colpi di stato.

Perché con la Primavera araba non dovrebbe accadere lo stesso? Sebbene non con la stessa frequenza siriana, anche il popolo egiziano negli ultimi decenni ha visto come unico mezzo per un cambiamento ai vertici del potere la rivolta con il conseguente colpo di Stato.

Anche il tanto amato Gamāl ʿAbd al-Nāṣer, ha preso il potere con una rivolta: anche lui, sebbene non esattamente come sta avvenendo adesso, faceva parte di un’onda ribelle che ha cacciato via re Fārūq I.

Nel 1952 ha inizio la rivolta, nel 1953 diventa presidente della Repubblica egiziana Muhammad Naguib e nel 1954, con un colpo di “mano“, Nasser prende il potere per oltre 14 anni. È stata anche quella una Primavera egiziana? O no? Eppure sebbene i soggetti siano diversi, almeno nei presupposti e negli avvenimenti iniziali sembra essere simile alla Primavera egiziana odierna. Che cosa ci può far sperare che la situazione evolva in modo diverso? Non certo il desiderio nella popolazione di avere forme di rappresentanza: questo c’è sempre stato ed è naturale nell’uomo sociale, ma poi sarà il regime di turno a soffocarla: basti ricordare il comportamento di Mubārak contro i suoi oppositori e contro ogni forma di rappresentanza esterna al partito unico. In questo momento è troppo presto per soffocare gli animi ribelli: i riflettori internazionali sono ancora tutti accesi sull’Egitto (e sull’Africa mediterranea), e bisognerà attendere che si affievolisca l’interesse dell’opinione pubblica internazionale e dei suoi mass media, per iniziare gli “aggiustamenti strutturali” che porteranno alla piena funzionalità del nuovo regime.

 

Segnali dal massacro copto

Ciò che è accaduto contro la comunità copta è solo un segnale d’allarme tragico, pur se flebile, sfuggito al controllo del “governo di transizione”. Il segnale è arrivato tuttavia alle agenzie di informazione occidentali, sebbene il grande progetto-tentativo del nuovo “governo di transizione” avesse previsto di mettere a tacere la verità e di mostrare, invece, all’opinione pubblica mondiale un diffuso ottimismo tra la popolazione riguardo all’’operato e alle buone intenzioni del regime che si sta strutturando.

La comunità copta, fino ad adesso protetta indirettamente e inconsapevolmente dall’assolutismo laico di Mubārak, adesso dovrà fare i conti con un “ordine nuovo” che verosimilmente non ha alcun interesse a difendere le minoranze, tanto più se di tipo religioso.

Ormai è un dato di fatto che le frange estremiste pseudo-islamiche usino la religione come collante e fonte di consenso con l’unico obiettivo di consolidare un nuovo potere: queste frange estremiste sono, infatti, libere di agire e influire sulla politica, non essendoci più protezione e sicurezza per chi è socialmente debole minoranza. Questo vale particolarmente per i copti, ma vale anche per tutte le minoranze, per tutti i gruppi “non-culturalmente-musulmani” della società e, in generale, per tutta la popolazione civile egiziana.

Se poi si osserva anche come gli USA, di fronte alla notizia del massacro copto e ai tentativi di insabbiamento del “governo di transizione”, preferiscano non opporsi e come gli altri Stati occidentali preferiscano coltivare indolentemente i propri interessi in Egitto, senza alzare la voce; allora si deve concludere che quella egiziana non dovrebbe essere chiamata una Primavera, ma il solito vecchio Autunno di sempre, una rivolta che ha cambiato solo i nomi di chi governerà assolutisticamente l’Egitto per i prossimi anni.

Se si considera, infine, come l’unica vera condanna al massacro sia stata quella del papa Benedetto XVI, non in qualità di capo di Stato, ma di capo religioso e difensore dei valori umani e morali, allora le domande, su quali siano le intenzioni degli attori statuali internazionali se la situazione in Egitto dovesse degenerare in regime, sembrano trovare, già da questi primi segnali di autoritarismo violento, una chiara risposta: il ruolo della comunità internazionale (USA, UE e attori internazionali più influenti) sarà quello di mediatrice-approfittatrice che oscilla tra la difesa dei diritti umani e il dialogo col regime per l’ottenimento di concessioni vantaggiose di tipo economico e geopolitico.

In tale stato di cose la rivolta rischia di divenire l’inizio di decenni grigi per la popolazione che aveva posto grandi speranze nella caduta di Mubārak.

Unica nota positiva in un tale scenario è che i riflettori mediatici rimarranno sicuramente accesi ancora per un po’ sull’Egitto, così come sul resto dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente; ma tutto ciò potrà forse soltanto rinviare questo ulteriore Autunno egiziano.

 

* Gabriele Roccaro, studente magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche presso la facoltà di scienze politiche “R. Ruffilli” (Università di Bologna).

 

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

 

 

1 Vedi James L. Gelvin, “The Modern Middle East. A History”, Oxford University Press, Inc., New York 2008, trad. it. Storia del Medio Oriente moderno”, Einaudi, Torino 2009, p. 365.

2 Vedi: http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/slow-news/2011/10/stereotipi-degitto.html

3 Vedi: http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/slow-news/2011/10/stereotipi-degitto.html

4 Vedi Fred Halliday, “The Middle East in International Relations. Power, politics and ideology”, Cambridge University Press, 2005, trad. it. “Il Medio Oriente. Potenza, politica e ideologia”, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 439.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Crisi economica e campagna elettorale: gli ‘Obamiani’ alle strette

$
0
0

Alla vigilia della caduta del governo Berlusconi, il Times, celebre testata britannica, additava l’attuale ex Primo Ministro italiano come l’uomo alla guida dell’economia più pericolosa al mondo. Gli Stati Uniti hanno dato il loro placet a questo approccio, tentando di spostare l’attenzione dai loro gravi problemi economici a quelli europei. Tuttavia, dopo le deboli speranze sul raggiungimento di un accordo fra Democratici e Repubblicani sul deficit, è arrivata la notizia che il “Super-committee” istituito ad hoc ha fallito.

 

Che la crisi economica mondiale, esplosa nel 2008 ma già latente da tempo, provenga da oltreoceano è dato sul quale tutti si trovano concordi. Che la crisi economica sia stata causata da istituti di credito, che hanno speculato e intasato letteralmente il mercato finanziario di titoli tossici, è altrettanto assodato. Che Obama, nei suoi già 3 anni al potere, non sia stato in grado né di risollevare l’economia degli Stati Uniti, né di attuare riforme degne di nota e men che meno utili al Paese, è cosa sotto gli occhi di tutti.

 

La crisi economica del 2008 esplose e venne a galla con il disastro finanziario causato dagli istituti di credito negli USA, e saltò agli occhi non solo per la conseguente bancarotta di banche come la Lehman Brothers, ma anche per il fatto che molti cittadini si erano ritrovati da un momento all’altro impossibilitati a pagare il mutuo della propria abitazione, vedendosela pignorata. Il dramma della gente comune in prima pagina aveva toccato molti. Al presidente Obama si poneva una grande sfida dinanzi: cercare di risollevare le sorti della nazione, varare misure che fungessero da volano per l’economia e agire affinché la disoccupazione dilagata nel giro di pochi mesi subisse un freno.

 

Le cronache di mesi orsono ci testimoniano che, dal 2009 a oggi, gli Stati Uniti non hanno avuto una ripresa né economica né in termini di occupazione. Se ciò non bastasse, solo qualche mese fa si era palesato l’ingente problema del deficit in procinto di raggiungere il tetto massimo consentito dalla legislazione nazionale. In agosto, dopo affannati tentativi di smorzare sia toni sia la preoccupazione in seno ai mercati finanziari, si era riusciti a raggiungere un accordo bipartisan e a rimandare la decisione sul default, grazie alla costituzione di un “Super-committee” formato da 6 rappresentanti dei Repubblicani e altrettanti Democratici.

 

Milleduecento miliardi di dollari. Questo è il numero che ogni statunitense dovrebbe tenere sempre a mente; questo è ciò che ci dà la misura del disastro finanziario dell’unica Superpotenza attualmente conosciuta. Il Paese è chiamato, da qui a dieci anni, a riportare il proprio deficit sotto i livelli di guardia, ma non si è trovato alcun accordo sulle modalità. Se da un lato i Democrats non vogliono cedere a tagli ai programmi di assistenza, dall’altro i Repubblicani ritengono inaccettabile un nuovo giro di vite sulle tasse, che impatterebbero maggiormente sulle fasce più agiate dalla popolazione. Secondo ciò che riporta Euronews, “il fallimento della super-commissione non implica alcun rischio di default, ma è un segnale inquietante per le agenzie di rating: Fitch si riserva di valutare la situazione a fine mese, mentre Moody’s e Standard and Poors non vedono per ora conseguenze sul rating americano. Fallito l’accordo, scatteranno tagli di spesa automatici a partire dal gennaio 2013”.

 

Politica ed economia sono legate così strettamente da poter essere viste come due facce della stessa medaglia. Ecco perché il presidente in carica Obama sta tentando di portare avanti una campagna politico-mediatica che lo aiuti a colmare quella impopolarità dovuta, evidentemente, a un’incapacità di fondo di riuscire a far “funzionare le cose”. Se solo il mese scorso vari rappresentanti della comunità di colore, fra cui speaker radiofonici e addirittura esponenti religiosi, tentavano di riportare a galla lo spirito dei “colored” affinché continuassero a sostenere il “fratello” Obama, ora assistiamo a un ennesimo e differente approccio nella lunga via alla popolarità.

Non potendo ricorrere a esempi concreti di successo della propria politica, il presidente nordamericano attacca i Repubblicani sul mancato raggiungimento di un accordo. La strategia che sta attuando è sicuramente intelligente, anche se non di altrettanto certa utilità. Durante i vari interventi e discorsi in giro per la nazione, Obama ha definito i propri avversari politici degli “ipocriti”, politici che hanno fatto voto di servire il bene della patria ma che vogliono solo tutelare gli interessi di pochi. Questa è un’argomentazione che potrebbe, forse, trovare terreno fertile fra i tanti elettori che hanno perso il lavoro o che vivono sulla propria pelle le ristrettezze economiche frutto della crisi. D’altro canto, ripetere che i Democratici sono fermamente contrari ai tagli ai programmi di assistenza non può che andare positivamente ad aggiungersi al nuovo approccio per riguadagnare consensi.

 

Non si può certo contestare a Obama che manchi d’inventiva, almeno per ciò che riguarda la sua “caccia al voto”, tuttavia il mancato accordo, i tagli automatici che ne deriveranno e la crescita della ricchezza interna in ribasso dello 0,5% non regalano un quadro positivo e incoraggiante per i Democratici. Se in Europa, a fronte della crisi, alcuni governi hanno dovuto cedere il passo ad altri, credo che sia totalmente plausibile continuare a prospettare una sempre più netta perdita di consensi degli “Obamiani”. Se il presidente in carica riuscirà a fare il Miracolo, forse avrà qualche possibilità di essere rieletto. Ma i miracoli, si sa, sono duri a venire.

 

*Eleonora Peruccacci è laureata in relazioni internazionali (Università di Perugia) ed è ricercatrice dell’ISAG

 

Su Eurasia da leggere anche:

 

http://www.eurasia-rivista.org/usa-is-payments-default-the-answer/10361/

 

http://www.eurasia-rivista.org/usa-obama-alle-prese-con-un-deficit-problematico/9218/

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Brasile: un futuro da scegliere

$
0
0

Il biennio 2010/2011, ancora in fase di conclusione, ha rappresentato per lo Stato brasiliano un vero e proprio punto di non ritorno. Un biennio in cui oltre a consolidare la propria politica interna, senza risentire eccessivamente del passaggio Lula-Rousseff, l’attore brasiliano è stato capace di confermare, nonché di incrementare, il suo ruolo di protagonista all’interno dello scenario mondiale. A determinare questa evoluzione, tutta una serie di eventi che hanno definitivamente indicato il Brasile come un possibile leader futuro in grado di mutare gli assetti di un eventuale nuovo ordine internazionale.

 

Ad un soffio dal successo

 

L’evento simbolo di questi ultimi due anni e che senza ombra di dubbio avrebbe meritato il primo premio nella categoria “affari esteri” ,è l’ormai noto accordo concluso con Iran e Turchia riguardo la famigerata questione nucleare iraniana.
Non è nostra intenzione concentrarci sui dettagli dell’intesa (già ampiamente descritti in altre sedi da altrettanti analisti), e guardiamo piuttosto, senza avere pretese di verità assoluta, a quelle che sono state le conseguenze in ambito internazionale di tali decisioni.
Innanzitutto, e non occorre un esperto di geopolitica per dirlo, l’accordo ha dimostrato, sempre se fosse ancora necessario, l’ennesima prova di debolezza/impotenza di Washington in uno scacchiere in cui sempre più pedine finiscono col trasformarsi in regine. Inoltre, vedendo quanto è accaduto e tutt’ora accade nel vicino e medio oriente sembra che gli avvenimenti non siano del tutto scollegati fra loro. Se poi si analizzano le varie reazioni di numerose capitali sudamericane, Brasilia inclusa, riguardo la situazione libica, quella in Siria, quella in Bahrein e via dicendo, ecco che i processi decisionali della Casa Bianca risultano essere molto più chiari, così come risulta essere chiara la direzione che il Brasile ed altre potenze hanno deciso di intraprendere.
L’ennesima prova di forza per dimostrare di essere ancora in grado di controllare le sorti del globo? Forse. Fatto sta che l’area in questione è stata abbondantemente destabilizzata, e la NATO (Stati Uniti d’America) si è assicurata nuovi punti strategici in grado di contrastare l’azione di Teheran e dei suoi alleati.

In secondo luogo, con l’accordo Brasile-Iran-Turchia si è ulteriormente rafforzato quel legame storico che la regione sudamericana stringe con i popoli dell’Africa e dell’Oriente (Cina inclusa).

Il sostegno alla Repubblica Islamica dell’allora presidente brasiliano Lula, seppur come mediatore, ha senz’altro incentivato tutti quei Paesi cosiddetti “non-allineati” ad affacciarsi con maggiore sicurezza verso le coste del Sud del continente americano.

Infine, ovvero, il risultato ovvio di quanto detto finora, con la mediazione esercitata il Brasile ha notevolmente contribuito a bilanciare quel tanto amato “equilibrio di potenza” nell’ordine internazionale.

Emerich De Vattel definiva l’equilibrio di potenza come “una disposizione delle cose, mediante la quale veruna potenza non trovasi in istato di predominare assolutamente e d’impor la legge ad altrui”¹. Definizione che rispecchia a pieno l’azione di politica estera di Brasilia. Cambiare le carte in tavola, questo è l’intento. Creare un ordine internazionale complesso che sia veramente tale, dove a prendere le decisioni non siano sempre i soliti noti capaci di decidere le sorti della maggioranza. Questo l’obiettivo di Lula prima, e della Rousseff ora. Un obiettivo di possibile realizzazione. Il percorso intrapreso sulla questione iraniana ne è un chiaro esempio.
La controfirma a quanto appena detto è stata posta qualche settimana fa con agli accordi presi dal Governo Rousseff in ambito di tecnologia militare, accordi che rientrano all’interno del “Programma di Sviluppo dei Sottomarini” (PROSUB). Dopo le intese raggiunte con la Francia durante la presidenza Lula per la realizzazione di quattro sottomarini convenzionali ed uno nucleare è stato da poco raggiunto un nuovo accordo grazie al quale entro il 2048 verranno fabbricati ben sei sottomarini nucleari e diciannove sottomarini convenzionali.

Con l’innovazione della tecnologia nucleare brasiliana, il Paese rientra definitivamente in quella stretta cerchia di Stati in grado di produrre sottomarini nucleari. Ad affiancarlo solo USA, Russia, Francia, Inghilterra e Cina².
Inutile aggiungere che anche in questo caso, l’avanzamento tecnologico nucleare raggiunto dal Brasile non fa altro che migliorare proprio quell’equilibrio di potenza poc’anzi citato. Ossia la mutua deterrenza nucleare³ come veniva definita da Hedley Bull.

Il pieno controllo di alcune risorse energetiche come quella nucleare, ma non solo, è da ritenersi necessario per garantire un vero multipolarismo fra gli Stati; sviluppare l’energia nucleare è inoltre necessario anche per non lasciare il monopolio nelle mani di Washington.

È pacifico che se il Brasile ha deciso di agire in un determinato modo non è solo per raggiungere un maggiore equilibrio di potenza ma ovviamente anche per un proprio interesse personale, tuttavia, al momento sembra essere un comportamento diverso da quello delle passate amministrazioni USA, un comportamento che mira prima di tutto a voler fornire un vero e proprio nuovo modello di riferimento che si distacchi da quello “occidentale” e funga da luce di speranza anche per tutti gli altri Paesi che credono che proprio quel modello “occidentale” non sia più un esempio da seguire.

Tutte queste parole avrebbero avuto ancor più senso nel momento in cui il triplice accordo fosse stato concretamente portato in essere. Le successive sanzioni inflitte nei confronti di Tehran, votate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 9 giugno 2010, hanno infatti decretato la bocciatura della mediazione turco-brasiliana.

Non andremo a vedere i dettagli delle sanzioni ne tantomeno gli sviluppi sulla questione Iran.
Quello che davvero importa è il fallito tentativo di negoziazione da parte di Brasilia. Un tentativo che poteva tramutarsi in qualcosa di più sostanzioso ma che gli interessi di Russia e Cina lo hanno lasciato sgretolare.
Si resta tuttavia fiduciosi su quanto affermato riguardo il nuovo equilibrio di potenza, consci del fatto che il presentarsi futuro di situazioni analoghe possa portare a risultati da finale da partita.

Questa pazza economia⁴

 

Il ruolo innovatore dello Stato brasiliano sotto il profilo politico non può dirsi altrettanto tale sotto quello economico. Aspetti che sono strettamente correlati fra di loro e che un eventuale malfunzionamento, anche di uno solo dei due, avrebbe senza alcun dubbio compromesso l’ascesa del Brasile.
Il perché della prima affermazione sarà spiegato più avanti.
Gli accordi presi durante il governo Lula ed ora quelli presi dal suo successore politico sono molteplici, difficili da quantificare, sia all’interno della regione sudamericana sia ovviamente all’esterno. Così come sono numerose le adesioni da parte dello stesso Brasile ai vari organismi di integrazione regionale (MERCOSUR su tutti) e interregionale (BRICS su tutti) in grado di stimolare e supportare uno sviluppo economico dentro e fuori l’area sudamericana.

I risultati ottenuti in campo economico fino ad oggi sono frutto di un lungo lavoro che vede innanzitutto lo Stato brasiliano raggiungere una posizione di primato nei confronti degli altri Paesi dell’America Indiolatina. Un’egemonia economica, quella brasiliana, condivisa per molto tempo con lo Stato argentino ma che durante i mandati di Lula ha raggiunto un definitivo status dominante.

Tutto ha un prezzo però, così, se da un lato il potere economico dello Stato sudamericano ha aiutato e continua ad aiutare la regione Indiolatina a liberarsi dall’oppressione filo-imperialista della Casa Bianca, dall’altro lato ha imposto e continua ad imporre importanti decisioni per tutti i suoi vicini di casa.

Ma seguiamo un ordine logico.

Le realtà economiche che agiscono all’interno (ma anche all’esterno) della regione sudamericana sono essenzialmente rappresentate da due grandi blocchi. Da una parte quello formato dal “North American Free Trade Agreement” (NAFTA) e dalla “Free Trade Area of the Americas” (FTAA), dall’altra il blocco costituito dagli organismi regionali del “Mercado Común del Sur” (MERCOSUR), dalla “Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – Tratado de Comercio de los Pueblos” ( ALBA-TCP) e dalla “Comunidad Andina Nacional” (CAN). Entrambi i blocchi hanno come punto di riferimento altri due organismi regionali che sono rispettivamente la “Oraganization of American States” (OAS), con a capo gli Stati Uniti, e la “Unión de Naciones Suramericanas” (UNASUR), in cui a primeggiare è proprio il Brasile.

Il tutto rischia, dunque, di trasformarsi in un unico scontro bipolare in cui gli interessi e le esigenze degli altri Paesi (salvo quelli in grado di risolvere autonomamente i proprio bisogni) rischiano di passare brutalmente in secondo piano.

Quello che infatti sta pian piano prendendo corpo all’interno del Sudamerica, e qui si motiva l’affermazione iniziale, è un meccanismo alquanto perverso e fuorviante da quella che dovrebbe essere una vera integrazione regionale.

Per liberarsi dall’influenza degli Stati Uniti si rischia di rimanere soggiogati da un altro attore, il Brasile appunto, che invece di cooperare, in molti casi, intraprende in materia economica processi decisionali in completa autonomia, senza preoccuparsi di quello che dovrebbe essere un vero spirito integrativo e dimenticando spesso che la base solida della svolta politica dell’America Indiolatina di questi ultimi anni è stata dettata a suon di consensi popolari. E che consensi! Se l’elettorato ne risente, se il cittadino medio vede peggiorare le proprie condizioni a costo di un’integrazione fasulla, la stessa operazione di distacco da Washington non andrà a buon fine.

A sottolineare questo atteggiamento pseudo imperialista del Palácio do Planalto è in primo luogo l’avanzo delle sue grandi imprese multinazionali, specializzate nel recupero di risorse naturali, e in particolar modo il loro disinteresse pressoché totale verso le necessità del popolo brasiliano.
Processo (il recupero di risorse naturali) che copre tutta la filiera produttiva, dall’estrazione all’immissione sul mercato regionale ed extra regionale. Gruppi come Petrobras, Vale, Votorantim e Odebrecht hanno il controllo in settori quali quello energetico, petrolifero, minerario, etc. non solo all’interno del Brasile ma anche nell’intera area sudamericana, e in alcuni casi, come nel caso Petrobras, sono riconosciuti nei rispettivi settori come dei veri leader mondiali.

La Petrobras, secondo fonti della PFC Energy, risultava a fine 2010 la terza compagnia energetica al mondo, così come la Vale risulta essere il maggiore esportatore di ferro su scala globale, rappresentando la seconda compagnia mineraria al mondo. La Odebrecht a sua volta controlla la Braskem, ossia, la compagnia petrolchimica più grande di tutto il Sudamerica, quinta nel ranking mondiale per grandezza e diciassettesima per fatturato.

A rendere possibile tutto ciò due grandi protagonisti: uno politico e uno finanziario.

Quello politico è rappresentato da una costola dell’UNASUR, ossia, dalla “Iniziativa per l’Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana” (IIRSA). Come obiettivo principale la pianificazione e lo sviluppo di progetti per il miglioramento delle infrastrutture regionali di trasporto, energia e telecomunicazioni.

Oltre a poter contare sul sostegno economico del “Banco Interamericano de Desarollo” (BID), della Corporación Andina de Fomento (CAF) e del “Fondo Financiario para el Desarollo de la Cuenca del Plata” (FONPLATA), l’IIRSA si avvale dell’altro protagonista, quello finanziario.

Si parla del “Banco Nacional de Desarollo Económico y Social” (BNDES), ovvero, la maggiore banca brasiliana di finanziamento di tutta l’America Indiolatina, nonché la più grande banca di sviluppo dell’intero pianeta. È proprio grazie al BNDES, banca collegata direttamente al Ministero brasiliano dello sviluppo dell’industria e del commercio estero che l’IIRSA finanzia i suoi progetti di infrastruttura. La stessa banca che permette i maggiori flussi di capitale brasiliano all’estero.

Come già anticipato però, l’azione economica brasiliana non converte il lavoro dei brasiliani (così come quello dei loro vicini, dato che il Brasile controlla una percentuale importante delle principali fonti di ricchezza degli altri Paesi della regione: basti pensare agli idrocarburi in Bolivia, all’allevamento e alla pastorizia in Uruguay, all’energia proveniente dalla diga di Itaipù in Paraguay, alle miniere in Perù, ma anche ad importanti settori dell’industria argentina, oggi assorbiti da grandi imprese brasiliane) in vantaggi concreti per il loro vivere quotidiano.

Per lo meno così dimostrano alcuni fatti.

Il Brasile è attualmente uno dei principali esportatori di carne bovina al mondo, tuttavia centinaia di migliaia di brasiliani soffrono di malnutrizione. Circa il 75% dei guadagni delle maggiori ditte di costruzione brasiliane provengono da progetti realizzati fuori dai confini nazionali, in cui sono incluse le stesse opere proposte dall’IIRSA, allo stesso tempo il sistema di trasporto delle grandi metropoli offre ancora un servizio di scarsa qualità. Il programma di buoni “Bolso Familia”, adottato dal governo nell’ambito della sua politica sociale e finalizzato alla riduzione della povertà risulta essere tutt’ora poco efficiente a lungo termine, dal momento che se da una parte agisce con azioni concrete (i buoni alle famiglie) combattendo dunque gli effetti della povertà, dall’altra ignora quelle che sono le cause della povertà stessa, risolvendo il problema solo temporaneamente.

 

Amazzonia mon amour

 

Prima di tirare qualche conclusione analizziamo molto brevemente un ultimo aspetto, un aspetto squisitamente geopolitico.

Storicamente, in Brasile, nonostante alcuni esempi fossero già comparsi in precedenza, un vero e proprio dibattito geopolitico si ha a partire dagli anni ’50, grazie sopratutto alle teorie formulate dal generale Golbery do Conto e Silva. Il fulcro del lavori, in quel caso, si focalizzò sull’enorme area geografica dell’Amazzonia, regione in cui era ancora incerta una reale sovranità da parte dello Stato brasiliano.

Il controllo dell’Amazzonia è ancora oggi una delle principali priorità in termini di sicurezza ma anche ovviamente in termini di guadagno, data l’abbondanza di risorse naturali presenti nel territorio. L’enorme area (più di sette milioni di km²) è per circa il 65% territorio brasiliano, un’altra importante percentuale è condivisa dal Perù, mentre il rimanente è diviso tra Colombia, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guayana, Suriname e Guayana francese.

Controllo che a quanto p

are non è di sola priorità brasiliana; interessante a riguardo, l’analisi proposta qualche tempo fa dallo scrittore argentino Atilio Boron.

Secondo lo scrittore, in occasione dell’ultima visita di Obama in Brasile, dove da una parte iniziavano i bombardamenti in Libia e dall’altra lo staff della Casa Bianca tentava di chiudere affari con la nuova amministrazione Rousseff, l’obiettivo che con l’incontro bilaterale si cercava di raggiungere, era un possibile avanzamento all’interno della regione brasiliana, mirando proprio alla sproporzionata distesa amazzonica. Il tutto camuffato da accordi puramente economici che permetterebbero a Washington di posizionarsi definitivamente in suolo brasiliano e collocare così nuovi punti di controllo nella regione sudamericana, poco importa che poi questi punti siano mascherati da piattaforme petrolifere.

Sempre secondo Boron, il controllo dell’Amazzonia permetterebbe di concentrarsi sul secondo obiettivo della Casa Bianca: ostacolare quella coordinazione economica e politica espressa, come già sottolineato in precedenza, dal triangolo MERCOSUR-ALBA-CAN, senza dimenticare la funzione di collante svolta dall’UNASUR, così determinante da far naufragare la FTAA e da contrastare le cospirazioni golpiste e secessioniste in Bolivia (2008) ed Ecuador (2010).

lo scrittore argentino evidenzia come la presenza in Brasile dello Stato nordamericano andrebbe a completare un quadro già ben definito, in cui, con l’Amazzonia come ipotetico centro, si collocano a Nord-Ovest le basi USA in Colombia, ad Ovest le basi in Perù, ad Est la base congiunta con la Francia in Guayana francese e a Sud le basi situate in Paraguay.

 

Conclusioni

 

Il Brasile ha ottenuto in questi anni risultati invidiabili, sia all’interno del proprio Stato che nelle relazioni politico-economiche con l’esterno. Un Paese che uscito, come d’altronde gran parte dell’America Indiolatina, da un lungo periodo di violenta dittatura è stato in grado di rilanciare la sua immagine di attore internazionale sotto ogni tipo di ambito.

L’epoca Lula ha consolidato definitivamente questa rinascita portando il Paese all’interno di quel circolo di Stati capaci di cambiare realmente le sorti dell’ordine internazionale.

Dal suo canto, la Rousseff non sembra voler arretrare sulle tendenze raggiunte con la passata presidenza, ne tantomeno sembra voler abbandonare uno degli obiettivi principali auspicati da Brasilia: emancipare lo Stato brasiliano dalla potenza statunitense, in modo da potere creare quel modello di cui si parlava precedentemente. Per questa ragione, pur di non concedere ulteriori spazi a Washington all’interno della regione sudamericana (vedi appunto l’Amazzonia), l’amministrazione Rousseff potrebbe decidere di continuare a preferire gli accordi con Pechino, tanto in ambito energetico quanto in quello nucleare (tra l’altro gli USA di Obama rischiano di perdere, dopo l’elezione di Humala in Perù, un altro importante tassello strategico nella regione; ma questa è un’altra storia).

Restando in chiave di rapporti esteri, la sfida futura sarà proprio quella di rinforzare tutti quegli organismi interregionali, BRICS in primis, in grado di offrire una vera alternativa al modello “occidentale”. A tal proposito il ruolo del Brasile è stato fino a questo punto determinante, soprattutto da un punto di vista politico.

Rendere il BRICS, oltre ad una grande opportunità economica, anche un reale soggetto politico?

Può darsi, anche se gli interessi personali di Cina e Russia potrebbero scontrarsi in più di qualche occasione con gli interessi collegiali del gruppo dei cinque, le sanzioni 2010 imposte all’Iran ne sono un chiaro esempio.

Infine, la tanto discussa economia. Lo Stato brasiliano, economicamente parlando, ha reso molto al suo Paese, così come all’intera regione sudamericana. Tuttavia, prima di arrivare a situazioni poco vantaggiose per entrambi (il Paese e la regione), occorre raggiungere un maggiore equilibrio riguardo quelli che sono gli assetti interni al Brasile, ma anche riguardo gli assetti interni alla regione stessa.

Nel primo caso, il governo Rousseff dovrà cercare di fornire risposte più efficienti sull’eterna questione della povertà; allo stesso tempo dovrà cercare di ottimizzare il lavoro delle numerose multinazionali brasiliane anche verso lo stesso Brasile. È giusto investire all’estero ma sarebbe un controsenso se per lavori interni non si possa fare affidamento sulle proprie stesse industrie.

Nel secondo caso si hanno due problemi da risolvere nell’immediato.

Il primo problema si chiama MERCOSUR, dove il peso degli altri Stati, salvo in parte l’Argentina, è praticamente l’equivalente di un peso piuma. Ovvio che essendo una potenza maggiore, il Brasile abbia anche un peso diverso da un Uruguay, tanto per fare un esempio. Il dislivello raggiunto però è diventato troppo evidente ed ecco perché in molti casi si preferisce l’azione di ALBA piuttosto che quella del Mercato Comune.
Il secondo problema ha invece una valenza che va oltre le singole responsabilità del Brasile ma riguarda lo scontro fra il gruppo NAFTA e la triade già nominata MERCOSUR-ALBA-CAN. Problema che almeno per ora sembra non essere di troppo conto.
Forse questa è la prima volta nella storia dell’America Indiolatina che la maggioranza dei suoi Paesi e dei suoi popoli sono convinti fino in fondo di potersi emancipare totalmente dall’ombra sempre presente di Washington e della sua amministrazione di turno.


 

*Stefano Pistore (Università dell’Aquila, contribuisce frequentemente al sito di “Eurasia”)

 

1. E. de Vettel, Il diritto delle genti, ovvero Principi della legge naturale applicati alla condotta e agli affari delle nazioni e dei sovrani, Tipografia Fratelli Masi e Comp., Bologna 1804-1805, Libro III, cap 3, sez. 47, p. 33.
2. Per approfondire leggere
“Un momento estratégico para Sudamérica”, Raúl Zibechi, La Jornada.
3. Hedley Bull,
La Società Anarchica. L’ordine nella politica mondiale, Vita e Pensiero, Milano 2006, cap. 5, pp. 137-148.
4. Cfr. Mathias Luce, “
El subimperialismo brasileño en bolivia y américa latina”.
5. Per approfondire leggere
“Histoire de la géopolitique”, Pascal Lorot, Economica 1995.
6. Atilio A. Boron,
“¡Es la Amazonía, estúpido!”.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Cipro. L’isola dell’unione che non c’è

$
0
0

Vantando un’importante posizione strategica nel Mar Mediterraneo, Cipro è stata da sempre contesa sin dall’Età antica. Durante gli ultimi due secoli, a contendersi il dominio dell’isola sono state le due principali comunità della popolazione, ovvero quella greco-cipriota e quella turco-cipriota, sostenute rispettivamente da Grecia e Turchia. Il 1974 è stato l’anno di svolta: a seguito dell’occupazione militare della zona settentrionale da parte della Turchia, si costituirono due Stati, ma quello turco-cipriota non è ancora riconosciuto dalla comunità internazionale. Dal 2000, i due Stati ciprioti tentano di risolvere le questioni che li separano, come la demarcazione delle acque territoriali e il trattamento delle rispettive minoranze, condizionati comunque dalle scelte dei governi di Atene ed Ankara.

 

 

Crocevia del Mediterraneo

Cipro è una delle principali isole del Mar Mediterraneo: al di là delle dimensioni, che le consentono essere la terza isola dello stesso mare, Cipro vanta un’importante posizione strategica che, assieme alle proprie risorse naturali, le ha permesso di ricoprire un ruolo di primo piano nella storia. L’isola, storicamente e culturalmente europea ma geograficamente appartenente al Medio Oriente, presenta i caratteri tipici dell’area mediterranea, rivelandosi anche un’importante meta geologica. La storia di Cipro passa dal dominio greco-romano alle lotte tra Venezia e Impero turco-ottomano per aggiudicarsi il potere sull’isola e dalla spartizione del territorio cipriota tra greci e turchi fino ai recenti tentativi di riunificazione.

 

Dall’indipendenza alla divisione

L’istituzione dello Stato greco, avvenuta nel XIX secolo, provocò le insistenti richieste da parte della popolazione greco-cipriota di annettere l’isola di Cipro alla Grecia, dato il sentimento di comune storia culturale e religiosa. Alla fine del XIX, dopo l’inaugurazione del Canale di Suez, il Regno Unito si interessò particolarmente all’isola di Cipro, data la sua adeguata posizione strategica per il controllo del canale: nel 1878, a seguito della Conferenza di Cipro, il Regno Unito otteneva l’amministrazione dell’isola, che divenne definitivamente una colonia britannica nel 1925. Durante gli anni successivi, la popolazione greco-cipriota non abbandonava il desiderio di annettere l’isola alla Grecia (énosis), mentre la popolazione turco-cipriota preferiva la separazione (taksim). Raggiunta l’indipendenza dal Regno Unito nel 1960, si costituirono le condizioni tali da favorire uno scontro indiretto fra la Grecia e la Turchia per la definizione del nuovo Stato cipriota. Infatti, nonostante l’adozione di equilibrate misure costituzionali, l’attrito tra greco-ciprioti e turco-ciprioti sfociò definitivamente nella spartizione dell’isola tra Grecia e Turchia. Quest’ultima occupò militarmente l’area settentrionale di Cipro, provvedendo immediatamente a istituire una nuova entità statale, nota come la Repubblica Turca di Cipro del Nord, ed espellendo dal nuovo Stato la popolazione greco-cipriota. L’Organizzazione delle Nazioni Unite tentò di avviare le negoziazioni fra i greci e i turchi, ma l’unico risultato fu l’istituzione della “zona cuscinetto” tra le due parti territoriali. Va precisato che la dichiarazione d’indipendenza della Repubblica Turca di Cipro del Nord non è stata riconosciuta giuridicamente valida dal Consiglio di Sicurezza della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite. Nonostante ciò, i turco-ciprioti si dichiararono comunque indipendenti, non riconoscendo l’altra entità statale dell’isola, ovvero la Repubblica di Cipro, che rappresenta la popolazione greco-cipriota. Durante i primi anni del XXI secolo, il Segretario Generale dell’O.N.U., Kofi Annan, intraprese una nuova serie di negoziati per la riunificazione dell’isola. Tali negoziati consentirono, nel 2004, la proposta di un piano di unificazione territoriale, che fu sostenuto dall’Assemblea Generale dell’O.N.U., dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti: sebbene fosse stato accettato dallo Stato turco-cipriota, il piano fu respinto da quello greco-cipriota che, nel frattempo, era divenuto membro dell’Unione Europea.

 

I recenti tentativi di conciliazione

La vittoria alle elezioni politiche greco-cipriote di Dimitri Christofias (2008) e a quelle greche di George Papandreou (2009, ora defenestrato) hanno permesso di sperare in una proficua collaborazione con la Turchia. Oltre alla disponibilità del nuovo Presidente dello Stato turco-cipriota, Dervish Eroglu, a riprendere i negoziati con il governo greco-cipriota, la Turchia ha avanzato la proposta di istituire un Alto Consiglio di cooperazione tra il governo greco e quello turco, con il compito di affrontare e risolvere in modo definitivo tutto il contenzioso bilaterale che separa da decenni i due Paesi. Nel frattempo, la principale assente alle trattative è stata l’Unione Europa che, finora, non è apparsa in grado di proporre una politica adeguatamente risolutiva. Tuttavia, aver permesso l’ammissione di un “quasi Stato”  fra i propri membri, si sta rivelando un difficile ostacolo da risolvere. L’attuale mancata risoluzione della questione cipriota ha diminuito le possibilità di adesione della Turchia all’Unione Europea e, inoltre, ha consentito che i forti interessi “neo-coloniali” del Regno Unito e, soprattutto, quelli strategici degli Stati Uniti, interessati alla posizione strategica dell’Isola dal punto di vista militare ed energetico, e della Russia, continuassero a dettare l’agenda dell’isola. Con la fine della Guerra Fredda, l’importanza di Cipro per gli Stati Uniti è aumentata, viste le nuove sfide sia globali che regionali e, altrettanto si può dire per la Russia dal momento che l’isola non solo è vicina alle aree di crisi del Caucaso e dei Balcani, ma è anche uno strategico punto di appoggio in tutta l’area Mediorientale. [1]

 

La soluzione passa per Ankara

Sebbene gli Stati Uniti sostengano l’adesione della Turchia all’Unione Europea, con l’obiettivo di rendere la Turchia a tutti gli effetti parte dell’Occidente, ad impedire che ciò accada è stata anche la forte ostilità pregiudiziale di Paesi come la Francia, che preferiscono istituire un partenariato con il Mediterraneo piuttosto che accettare l’adesione di uno Stato povero e musulmano nell’Unione Europea. I rapporti tra la Turchia e le istituzioni europee si sono recentemente complicati: la Turchia ha infatti sollecitato il governo greco-cipriota ad interrompere i lavori preparatori per le esplorazioni petrolifere attorno all’isola, affermando che, in caso contrario, navi da guerra turche potrebbero presidiare le prospezioni petrolifere sottomarine, sulla base di un accordo siglato con la Repubblica turca di Cipro Nord. Secondo la Turchia, i proventi dell’estrazione di gas e petrolio spettano anche ai turco-ciprioti che vivono nel Nord dell’isola. A seguito della controversia sulle trivellazioni, il governo turco ha annunciato che, qualora nel 2012 fosse assegnata a Cipro la presidenza di turno del Consiglio dell’U.E., sarebbe pronto a sospendere le proprie relazioni con l’Unione Europea. [2]

Mentre appare più adeguata l’ipotesi di risoluzione tramite un ampliamento dei negoziati, coinvolgendo la Turchia, la Grecia e l’Unione Europea, il Segretariato e il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., oltre ai due Stati ciprioti, al momento, il ruolo internazionale dello Stato turco potrebbe stravolgere qualsiasi previsione: secondo l’analista Semih Idiz, oltre al sostegno economico e militare allo Stato turco-cipriota, la Turchia vanta, rispetto a venti anni fa,  un’autorità internazionale, dovuta particolarmente alla posizione seria e coerente assunta nel tentativo di risoluzione della questione cipriota.

 

 

 

* Giacomo Morabito, dottore in Scienze delle Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Messina)

 

 

 

Note:

[1] (G. Natali, Cipro tra Europa e Medio Oriente, temi.repubblica.it/limes – 02/07/2007)

[2] (Autore anonimo, Cipro, disputa petrolio: Ankara minaccia invio navi da guerra, www.peacereporter.net – 19/09/2011)

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Bruno Amoroso: EURO IN BILICO. Una Recensione

$
0
0

Un saggio diretto alla comprensione dell’attuale crisi partendo dal suo principale fautore: il sistema finanziario occidentale.

I edizione: Ottobre 2011

Pagine: 128

Prezzo: 12,00 €

Edizione: RX  – LA TERRA VISTA DALLA TERRA – CASTELVECCHI EDITORE

Alberto Castelvecchi Editore s.r.l.

Via Isonzo, 34 – 00198 Roma (Italia)

 

Nel suo nuovo saggio, Amoroso, ci guida verso una lettura appropriata dell’attuale crisi economica occidentale. L’autore ci propone un’analisi storica, politica ed economica che trova le sue origini negli anni ’30 con la primi crisi economica statunitense. Proprio da tale periodo, e con maggior forza, successivamente al secondo conflitto mondiale, la finanza inizia la sua scalata verso il controllo dell’intera struttura economico-politica del pianeta. Pur incontrando diversi ostacoli – tra i quali l’impenetrabilità dell’area asiatica – riesce ad imporsi quale vera istituzione del Mondo Occidentale.

L’autore definisce il sistema finanziario quale “…metastasi dei sistemi economici e delle nostre società…” (pag.51) e pone l’accento sulla gravità del suo sviluppo sempre più capillare che va ad intaccare tutti i settori “redditizi” dell’economia. Strumento utile alla speculazione risulta essere il modello economico predominante: la Globalizzazione. Con tale modello si rende possibile la destabilizzazione e la denaturazione del “locale” in favore del “globale” e della semplificazione del sistema. Ciò permette un più agevole assorbimento da parte della lobby finanziaria – una ristretta cerchia di multinazionali fondate sulla speculazione, il mercato della droga e il sempre redditizio mercato delle armi – dei risparmi della società occidentale in nome del maggiore profitto.

Amoroso riporta alla nostra attenzione il motivo per cui fu concepito il denaro: semplificare gli scambi nella funzione economica

Merce-Denaro-Merce

E su come questa funzione si sia evoluta nel tempo sino ad arrivare all’attuale:

Denaro-Denaro

Che consente una speculazione sulla rendita e una restrizione dell’importanza del settore produttivo, a conseguenza  del quale si ha il collasso della piccola e media impresa e dei mercati regionali.

Ancor più interessante risulta l’analisi fatta da Amoroso sulla “necessità” del sistema finanziario di pilotare l’implementazione del progetto Unione Europea e della sua moneta unica. Tale realizzazione rientra nel progetto di “disarmo” delle Istituzioni locali (statali) dinanzi al processo di speculazione che avviene nei mercati finanziari. Il tutto riconducendo la crisi attuale da fallimento economico a grande successo della lobby della finanza globale.

L’unica risposta che le istituzioni hanno dato all’avanzata di multinazionali come la Goldman Sachs è stato un “scendere a patti con il diavolo” – Trattato di Maastricht (1992) e Gruppo di Lisbona (1997) le principali, ma non uniche tappe  che hanno ricondotto il sistema ad un cinico predatori vs prede dove queste ultime sono incarnate dai sistemi produttivi regionali, dalle piccole e medie imprese e, in fine, dai singoli risparmiatori d’Occidente. Il tutto viene agevolato dal controllo delle massime sfere istituzionali, mediante “soldati delle multinazionali” – per la Goldman Sachs due nomi su tutti: Mario Monti e Mario Draghi.

In fine Amoroso ci indica quella che potrebbe essere una soluzione – reale e non utopica – volta ad arginare e debellare il cancro finanziario dall’economia globale: lo scenario programmatico che fonda il suo punto di forza sulla regionalizzazione delle economie e sulla rivalutazione delle teorie keynesiane.

L’autore: Bruno Amoroso (nato l’11 Dicembre 1936) è docente emerito di Economia Internazionale e dello Sviluppo presso l’università Roskilde in Danimarca, coordina programmi di ricerca e cooperazione con i paesi dell’Asia e del Mediterraneo. Presiede il Centro Studi Federico Caffè e tra le sue pubblicazioni si annoverano: Europa e Mediterraneo (2000); Sistemi produttivi e di nuova formazione in 10 paesi della riva del sud del Mediterraneo (2002); Il futuro dell’Unione Europea: tra l’allargamento verso il Nord e il Mediterraneo  (2005); Costruzione europea e regione mediterranea (2007); Per il Bene Comune. Dallo Stato del Benessere alla Società del Benessere (2009).

 

*William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Evoluzione economica tra Occidente e resto del Mondo: analisi e prospettive

$
0
0

Oggi siamo spettatori inermi al declino dell’UE. Inermi perché se da un lato la sua costituzione è avvenuta senza una programmazione ponderata sui meccanismi politico-economici necessari ad una sua efficienza longeva, dall’altro siamo noi stessi cittadini ad aver perso quel minimo di sovranità che ci permetteva di essere partecipi alle decisioni macroeconomiche che ci coinvolgono direttamente. La classe politica degli ultimi decenni si è resa partecipe di una destrutturazione istituzionale che, invece di migliorare l’efficienza dell’azienda Stato, ne ha consentito lo smantellamento per una più appetibile ricollocazione nel mercato globale. La Storia ci insegna che l’eccessiva liberalizzazione porta un flusso considerevole di capitali in entrata nel breve periodo – allettanti per le casse statali e di pochi privati – ma che nel medio-lungo periodo si tramuta in un ancor più ingente flusso di capitali in uscita. I risultati sono ben evidenti oggi più che mai: bilancio pubblico in disavanzo, insostenibilità dei parametri economici europei, bilancia dei pagamenti che evidenza un’assenza di autosufficienza produttiva interna, mercato del lavoro che regredisce e di conseguenza una popolazione che invecchia, giustificatamente incapace di creare nuclei familiari nell’incertezza economica.

Come tutto ciò è stato possibile? Semplice: la liberalizzazione dei mercati nazionali per un più ampio mercato europeo e susseguente livello globale, ha rivelato un gap non indifferente con altre realtà produttive. Il sud d’Italia e più in generale il sud Europa ha subito un ridimensionamento del settore primario dell’economia – il quale rappresentava il perno della struttura socio-economica in queste aree – che si è tradotto in una progressiva marginalizzazione di queste aree  in favore delle regioni orientate al settore terziario. E’ in tal modo che, progressivamente, il cuore industriale si è spostato verso l’area del centro Europa – semplificabile con l’area geografica denominata “banana europea” che va da Milano a Londra.

Eccoci al primo step: il centro-nord Europa diventa il cuore dell’economia europea trasformando il sud Europa in una passiva area dalla quale trarre manodopera e materie prime. Conseguenza di ciò è una marginalizzazione progressiva delle aree del Sud ed un incremento del gap economico-sociale tra queste e il resto d’Europa che, a sua volta, rende necessaria una politica assistenzialista inutile ai fini di uno sviluppo economico sostenibile nel tempo.

Ma gli effetti del liberismo del mercato globale non si fermano qui. Al primo step fa seguito la deterritorializzazione del sistema produttivo. La Globalizzazione porta con se la separazione tra territorio ed azienda, consentendo lo sviluppo di multinazionali procacciatrici di territori favorevoli ad una produzione a più basso costo. Difatti il grosso delle aziende italiane e non, è in continuo tour per il mondo alla ricerca di Stati e Regioni compiacenti che per accaparrarsi un flusso di capitale nel breve periodo, offrono una “non tutela” dei lavoratori e forti agevolazioni all’istallazione industriale straniera.

Si delinea così il secondo step: impoverimento produttivo del Vecchio Continente e progressiva riduzione delle opportunità lavorative. Ciò avviene a causa, si fa per dire, di una legislazione ancora propensa a dare un minimo di tutela al  cittadino ed ai lavoratori, ponendosi, di fatto, quale ostacolo alle potenzialità di profitto ricavabile da una più iniqua contrattazione lavorativa. Inoltre “la colpa” delle istituzioni europee è di ostinarsi – anche se con sempre meno vigore – a preservare le aziende nazionali a discapito del subentro di investitori stranieri.

Sin qui si è assistito per lo più ad una “mungitura” del sud in favore del nord – sia in termini europei che in termini globali – ma la Globalizzazione si è spinta ben oltre. La finanza occidentale ha permesso, grazie ad una forte destrutturazione istituzionale dell’Occidente, un’energica “retata” speculativa da parte delle multinazionali finanziarie volta all’accrescimento esponenziale del proprio profitto. Il tutto palesatosi dal 2008 ad oggi, ma fondamentalmente ben programmato nei decenni precedenti. Gli effetti sono stati devastanti e non vedono ancora una fine.

Siamo al terzo step tutt’oggi in corso: destabilizzazione dell’UE che vede vacillare la sua unità politica e ancor prima monetaria; ridimensionamento dell’egemonia statunitense nello scacchiere geopolitico e geoeconomico; affanno economico occidentale nei confronti di altre macro-aree in forte crescita*.

Ora, come per il verificarsi di ogni step descritto, ci si ritrova ad analizzare l’evoluzione socio-economica per trovare l’antidoto o per lo meno la spiegazione teorica all’accaduto. I sostenitori del Villaggio Globale, della liberalizzazione dei mercati e della libera concorrenza possono ben affermare che si tratta di una crisi sistematica, naturale nell’attuale economia e volta a stabilizzare la stessa. Fattore ciclico quindi e per nulla preoccupante. Ma non è difficile capire che si è ben oltre la ciclicità e che siamo dinanzi al palesarsi dell’insostenibilità del sistema sul quale abbiamo fondato il nostro credo socio-economico. La stessa Unione Monetaria Europea, invece di migliorare il nostro mercato interno, ci ha resi inermi all’aggressione finanziaria subita. Ad oggi la stessa Germania – cuore economico ed istituzionale del modello eurocentrico – inizia a mostrare tracce di imperfezione … la finanza globale non sembra risparmiare nessuno ed allo stesso modo la “presunzione” francese si defila sempre più a causa del palesarsi di un debito pubblico poco confortante in un ottica di sostenibilità finanziaria.

Purtroppo l’Unione Europea ha attuato un progressivo disarmo delle sovranità nazionali e delle politiche economiche e monetarie utili, in passato, alle singole Nazioni per affrontare i momenti critici  dell’economia: politica monetaria, controllo del sistema creditizio, possibilità di accrescere o ridurre le barriere in entrata per difendere il sistema produttivo interno.

Per rendere più esplicito il concetto esposto, possiamo paragonare l’attuale Unione Europea ad un uomo senza globuli bianchi nelle vene e con un virus letale (la finanza) in circolo. L’antido oggi offertoci dallo stesso sistema finanziario è rappresentato dalle condizionalità dei vari organi internazionali – FMI, BM ai quali potrebbe aggiungersi un, oggi ancora teorico, Fondo Monetario Europeo (FME) – che nel concreto offrono flussi di capitale in cambio di una più spinta delegittimazione dell’autonomia Nazionale. Tutto ciò chiaramente, nel lungo periodo, tende a debellare una qualsiasi forma di resistenza alla speculazione finanziaria.

E cosa avviene nel resto del Mondo? O meglio cosa avviene nel Non-Occidente?

La finanza occidentale punta, inesorabilmente, a cercare nuovi mercati e nuove aree dalle quali ricavare nuovi profitti. E’ in quest’ottica che possono essere rivisitati i meccanismi socio-politici che hanno interessato le Rivolte Arabe e l’instabilità che caratterizza il Vicino Oriente. Si può ben credere che il cambiamento in atto nella sponda sud del Mediterraneo sia un tentativo celato da parte dell’Occidente, di rendere tale area più propensa all’interscambio (asimmetrico) con l’Occidente. Le dittature e gli estremismi ormai logori e poco al passo coi tempi “democratici” di oggi – da Saddam ad Ahmadinejad , passando per Gheddafi, Mubarak ed Assad – necessitano di un restyling  politico e quindi un favoritismo al cambiamento da parte di USA ed Europa non può che  riproporre gli stessi attori ad un ruolo di principali partner per il dopo Primavera Araba. Ciò renderebbe possibile il rinvigorimento delle casse occidentali con il mino sforzo perché se in alcuni casi è stato reso necessario l’intervento bellico, in altri si tende ad avere un atteggiamento più defilato di mera diplomazia – ad esempio sulla questione iraniana si punta a legittimare le preoccupazioni israeliane ed, in un certo qual modo, giustificare la possibile reazione militare di quest’ultimo (Israele), o ancora, si condanna l’atteggiamento del governo siriano legittimando la pressione popolare al cambiamento.

L’Africa Sub-Shariana paradossalmente è geopoliticamente “fortunata” per una questione di non prossimità alle aree occidentali. In concreto il continente africano è per lo più abbandonato al suo destino di ex-colonia ipersfruttata, ed oggi alle prese con forti conflitti interni scaturenti da una fortissima asimmetria nella ripartizione di ricchezze, un accentuata etnizzazione tribale delle micro-aree regionali ed una progettualità economico-istituzionale inesistente.

Il Sud America, invece, è l’area geografica che vive una vera e propria primavera. Il progressivo distacco delle singole realtà nazionali dal cordone geopolitico che le lega al Nord America, sta dando la possibilità di intravedere un reale sviluppo sostenibile di queste economie.  Ovviamente siamo solo agli inizi di un cammino economico che ha bisogno di rafforzarsi affrontando quelle che rappresentano le principali criticità dell’area: abbattimento della struttura latifondiaria che penalizza il potenziale geoeconomico dell’area; una più equa redistribuzione delle ricchezze per una maggiore unità popolare fondamentale nell’ottenimento di una stabilità economica di lungo periodo; una diversificazione produttiva che permetta la sostenibilità longeva dello sviluppo. Una marcia in più allo sviluppo sudamericano, la può dare sicuramente l’accentuarsi della consapevolezza di unione ed identità regionale che si sta manifestando in quest’area – basti osservare l’allineamento progressivo dei vari Stati Latinoamericani alla rivendicazione della sovranità Argentina sulle Falkland.

L’Est Europa e l’Asia hanno, invece, sempre dimostrato una forte resistenza al proliferare del sistema finanziario occidentale. Emblematica, in tal senso, è l’affermazione della Cina. Storicamente fondata su forti barriere al mercato esterno, la Cina ha implementato l’industria nazionale generando ingenti quantità di risparmio. Oggi, questo risparmio si è tramutato in considerevoli capitali da riversare sul mercato globale rappresentando il carburante del bum economico del Paese Asiatico. Di fatti, un basso profilo negli attriti internazionali – su tutti il conflitto israelo-palestinese – ha permesso a Pechino di instaurare rapporti economici con tutti, dai paesi filo-americani a quelli di matrice anti-atlantica. Strategia che ha reso la Cina il principale partner commerciale dell’Iran e allo stesso tempo partecipe “salvatrice” delle casse pubbliche d’occidente nell’attuale crisi – questo con l’acquisizione dei titoli di stato di USA e di mezza Europa. La strategia adottata da Pechino non sembra affatto dettata da un’idea di speculazione di breve periodo, bensì da una meticolosa programmazione volta a legittimare nel medio-lungo termine una posizione di vertice nelle relazioni geoeconomiche dell’intero Pianeta a discapito dell’attuale, se pur precaria, egemonia statunitense.

In conclusione, più che dinanzi ad uno scontro ideologico, ci ritroviamo al cospetto di un confronto tra modelli economici differenti che interagiscono al fine di prevalere l’uno su l’altro. Allo stato attuale La Globalizzazione è in forte crisi – o forse al suo apice se guardato dal punto di vista del successo della speculazione finanziaria – mentre l’alternativa Filo-Cinese o quella Latinoamericana sembrano dimostrare prospettive di maggiore stabilità ed equilibrio oltre a ridisegnare lo scacchiere geoeconomico globale. Fatto sta che l’Europa risulta chiusa nella morsa di questi modelli economici: vittima passiva dell’economia finanziaria alla quale è legata e vittima inerme dell’investimento asiatico che in concreto ne acquisisce progressivamente la proprietà economica.

Allo stato attuale sembrano quattro gli scenari che si prospettano dinanzi al Vecchio Continente:

–         Le istituzioni finanziarie rimettono in piedi il precario sistema Europa al fine di proseguire la produzione di profitto mediante speculazione. Tale meccanismo, inesorabilmente, genererà crisi sempre più forti e sempre meno sanabili fino al collasso dell’economia continentale nel momento in cui nemmeno la riacquisizione della totale sovranità nazionale potrà risollevare l’economia dei singoli Stati.

–         L’Unione Europea fa un passo indietro, rinunciando in parte alla moneta unica – valida solo come valuta per gli scambi tra Stati europei – e riassegnando ad ogni singola Nazione un’autonomia politico-economica volta a consentire una pronta reazione dei singoli Stati alle intemperie del libero mercato. Ciò permetterebbe una sorta di protezionismo del sistema produttivo interno dall’incalzare di economie più forti, e parallelamente un potenziamento della struttura socio-economica interna utile a generare un sistema economico europeo aggregato più forte nello scenario globale.

–         I flussi di investimento provenienti dall’area del BRICS e in particolar modo da parte della Cina, trasformano l’Europa da fonte di rendita per la finanza dell’economia della Globalizzazione, a fonte di rendita per il sistema filo-cinese. In poche parole l’Europa cambia padrone senza mai essere padrona di se stessa e del suo avvenire – di cui paradossalmente sono convinte invece Germania e Francia.

–         L’Europa ritrova una propria identità regionale mediante una forte riforma strutturale in ambito istituzionale. Con una ripartizione di competenze ed una rilettura dei parametri socio-economici propone un assetto più equilibrato sia internamente che esternamente. Su quest’ultimo aspetto (rapporti esogeni) l’Europa si riposiziona quale principale interlocutore internazionale sfruttando, finalmente, la posizione geografica che occupa – di indubbio potenziale strategico a livello politico ed economico. Un distacco dall’influenza statunitense permette un progressivo rafforzamento interno portandola a ricollocarsi sullo scacchiere mondiale in una posizione di privilegio rispetto ai classici colossi planetari (USA e Russia).

 

*Sino ad oggi siamo stati abituati a sintetizzare tali aree con il termine BRICS ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa quali nazioni in via di sviluppo. Una forzatura terminologica che occorre relativizzare per poter percepire che il novero degli Stati in forte crescita si sta ampliando e coinvolge aree esterne al “nostro Occidente” – ad esempio Argentina e Sud Corea.

 

*William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism

$
0
0
Si è tenuta a Parigi, i giorni 24 e 25 novembre, presso il Radisson Blu Ambassador Hotel la conferenza internazionale Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism.
Tra i relatori presente anche Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”, il quale ha preso parte alla terza sessione, svoltasi dalle 17 alle 19 del 24 novembre sul tema “Part mass media plays in international relations and the effect it has on them“.
L’organizzazione è stata a cura del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa e dell’Agenzia Federale delle Comunicazioni russa, in collaborazione con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, IFIMES e “The 4th Media”.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

VIII Forum di Dialogo Italo-Turco

$
0
0
Si è tenuto a Istanbul, il 24 e 25 novembre, l’ottava edizione del Forum di Dialogo Italo-Turco, presso l’Hotel Hilton.
Hanno partecipato, come membri della delegazione italiana, anche i rappresentanti dell’IsAG Aldo Braccio, Pietro Longo e Daniele Scalea.
L’organizzazione è stata a cura del SAM e di Unicredit, con l’altro patrocinio dei ministeri degli Affari Esteri di Italia e Turchia.

div> 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“Occupy Iran”?

$
0
0

Secondo l’agenzia Onu dal 2003 “l’Iran mostra segnali preoccupanti di un’attività volta alla ‘militarizzazione’ dell’atomo”. Il tutto basato su ”informazioni credibili”. Il regime iraniano non ha mai confermato questa ipotesi, ribadendo ancora che il suo programma nucleare ha finalità solo civili.

Le 25 pagine del rapporto fanno riferimento ai contenuti di un pc portatile che sarebbe stato rubato in Iran e finito poi nelle mani dell’intelligence statunitense, di cui si parlò per la prima volta nel 2004. Se anche tali documenti fossero autentici, nessuno può provare che siano collegabili agli organi ufficiali iraniani, dal momento che né l’AIEA né l’Iran hanno potuto visionarli. Inoltre l’infondatezza del file elettronico in questione è stata già dimostrata dall’Iran nel 2008 in un dossier di 117 pagine. Questi file contengono solo una serie di esperimenti e simulazioni computerizzate, il ché non implica che siano stati messi in pratica.

Molti esperti hanno affermato che tale rapporto non differisce molto dal “National Intelligence Estimate” americano del 2007, il quale concluse che l’Iran aveva sospeso il proprio programma nucleare militare nel 2003.

Secondo lo stesso Mark Fitzpatrick, esperto nucleare americano presso l’Istituto di studi strategici, il rapporto dell’AIEA conferma che la gran parte del programma iraniano a scopo bellico fu sviluppata tra il 1998 e il 2003. Alcuni studi teorici proseguirono negli anni successivi in maniera solo saltuaria, e non vi è alcuna indicazione che l’Iran sia in grado di gestire tutti gli stadi del processo necessario a costruire un’arma atomica.

Sulla base di questi dati, l’idea prevalente fra gli esperti è che l’Iran sarebbe interessato a impadronirsi delle conoscenze teoriche necessarie a sviluppare un ordigno nucleare, ma non starebbe in alcun modo tentando di costruirlo. Vi è poi chi sostiene che Teheran voglia assicurarsi solo la cosiddetta capacità di “breakout”, cioè raggiungere quella soglia che gli permetterebbe di costruire rapidamente una bomba all’occorrenza (ad esempio nel caso della minaccia di un attacco imminente da parte di una potenza ostile come gli Stati Uniti o Israele).

Il regime iraniano sa che, qualora si sforzasse di costruire concretamente un’arma atomica, si alienerebbe anche l’appoggio di Russia e Cina, ed il suo isolamento a livello internazionale diverrebbe totale. Per il momento, tuttavia, i dati esposti dal rapporto dell’AIEA non sembrano preoccupare molto Mosca e Pechino.

L’unico elemento nuovo consiste nella rivelazione di uno scienziato russo, Vyacheslav Danilenko, che avrebbe preparato l’Iran per la guerra nucleare. Lo storico e analista di politica militare Gareth Porter ha scoperto però che lo scienziato avrebbe in realtà lavorato in Russia solo sulla produzione di diamanti attraverso la detonazione, cioè di nano diamanti che nulla hanno a che vedere con le armi nucleari.

In casi come questi la cautela è d’obbligo, dal momento che competenze altamente specialistiche quali quelle di Danilenko potrebbero comunque essersi rivelate utili per la costruzione di esplosivi nucleari.

Ciò che risulta evidente però, è la superficialità con la quale i membri dell’AIEA abbiano riportato tali informazioni, senza appurarne le fonti. David Albraight, direttore dell’Istituto Internazionale per la scienza e la sicurezza, che era la fonte principale dell’agenzia Onu per le notizie su Danilenko, non si è mai preoccupato di verificare l’accuratezza dell’originaria dichiarazione di “uno Stato membro” che è quindi diventata la base delle accuse.

Senza dimenticare che quel David Albraight è lo stesso che nel 2002 avallò le accuse contro l’Iraq che sostenevano l’esistenza di armi di distruzione di massa, poi rivelatesi inesistenti. Peccato che nel frattempo l’amministrazione Bush avesse fatto in tempo a lanciare l’intervento militare contro il regime di Saddam Hussein.

Questo non è l’unico elemento in comune tra la vicenda irachena e quella iraniana. Anche i giornali occidentali sembrano comportarsi come alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, e lo scienziato Danilenko ricorda non poco Rafid Ahmed Alwan al-Janabi meglio conosciuto come Curveball ,il disertore che convinse la Casa Bianca che in Iraq esistevano armi di distruzioni di massa.

Tornando al problema dell’attendibilità dei dati forniti dall’agenzia Onu, il rapporto si basa su un’enorme massa di informazioni provenienti dalle agenzie di intelligence occidentali (notoriamente ostili a Teheran) e non verificabili in maniera indipendente da parte dell’AIEA.

Tale questione era stata ripetutamente sollevata da Mohamed El Baradei, il predecessore dell’attuale direttore dell’AIEA Yukiya Amano, che è invece accusato da Teheran di essere troppo accondiscendente nei confronti degli USA . Ancora pochi giorni prima della pubblicazione del rapporto, Amano si era infatti recato a Washington per consultarsi con i responsabili dell’amministrazione americana e assicurare loro di essere fermamente d’accordo “su tutte le fondamentali decisioni strategiche”.

Perché l’Iran dovrebbe volere l’arma atomica?

Esiste in primo luogo una ragione strategica.

La bomba atomica infatti è un potente strumento politico per accrescere lo status internazionale di un paese. Essa fornisce nello stesso tempo un formidabile deterrente contro ingerenze dall’estero e una leva per esercitare maggiore pressione diplomatica. Se l’Iran dovesse diventare una potenza nucleare, gli equilibri regionali nel Golfo Persico e nel Vicino Oriente ne verrebbero rivoluzionati. Dati i difficili rapporti tra il governo di Teheran e i suoi vicini – l’Iran non può contare su governi amici al di là di quello siriano – uno spostamento dei rapporti di forza a suo favore diverrebbe un ulteriore fattore di rischio in una regione altamente instabile.

Teheran ha intessuto una fitta rete di rapporti con diversi attori regionali che si oppongono alle politiche americane nell’area – dalla Siria a Hezbollah ad alcuni gruppi armati palestinesi – che possono essere persuasi ad azioni di disturbo. L’Iran può anche contare sulla sua capacità d’influenza in Afghanistan e soprattutto tra gli sciiti iracheni.

L’acquisizione di un deterrente nucleare rafforzerebbe considerevolmente la posizione dell’Iran rispetto ad Israele e agli stati arabi del Golfo, creando un contrappeso per l’intero sistema di alleanze e rapporti grazie al quale gli Stati Uniti si sono assicurati il loro primato regionale.

In secondo luogo vi sono le motivazioni economiche, che sono anche quelle che hanno causato i maggiori sospetti fra gli osservatori internazionali.

Ci si chiede infatti perché un paese come l’Iran, dotato di vaste risorse petrolifere e di gas, debba investire anche in tecnologia nucleare a fini energetici. Si omette però di ricordare che dal 1979 l’Iran è sottoposto a sanzioni economiche stringenti, che ironicamente hanno reso necessarie fonti energetiche aggiuntive.

E si omette anche di evidenziare che un altro Stato della regione, il Kuwait – ricchissimo di petrolio- ha di recente investito 20 miliardi di dollari sul reattore nucleare collocato sull’isola di Warba, distante solo 500 metri dalla più vicina zona irachena non abitata. Tra l’altro con il cospicuo apporto del gigante francese AREVA, principale investitore nell’impresa. Un altro accordo bilaterale è stato invece siglato con il Giappone, sulla cooperazione per l’uso pacifico dell’energia nucleare.

Insomma l’Iran non sarebbe l’unico paese nella regione tanto contesa a cercare di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico.

Sarebbe però l’unico a non cercare appoggi e finanziamenti dalle potenze occidentali.

RUSSIA E CINA

Mosca e Pechino si sono dimostrate inizialmente concordi nel ritenere il rapporto motivato politicamente e privo di prove concrete a sostegno delle accuse contro l’Iran. Mosca ha dichiarato: “è importante capire se ci sono davvero fatti nuovi, e attendibili, che confermano i sospetti relativi alla presenza di componenti militari del programma nucleare iraniano, o se stiamo parlando di una esacerbazione intenzionale e controproducente di emozioni“; Il ministro russo degli Esteri, Sergei Lavrov,ha affermato inoltre che il rapporto punterebbe ad affondare le chance di soluzione diplomatica”.

Posizione leggermente più sfumata da parte di Pechino, che ha criticato sia l’Iran sia l’AIEA, invitando Teheran ad essere “responsabile, flessibile e collaborativa“, ma sottolineando come l’agenzia delle Nazioni Unite debba essere “oggettiva“.

A motivare la posizione di Russia e Cina vi sono innanzitutto gli interessi economici che entrambe le potenze asiatiche hanno in Iran. Mosca vende armi a Teheran e sta contribuendo a sviluppare il suo programma nucleare civile. Pechino ha compiuto enormi investimenti nello sviluppo dei giacimenti iraniani di petrolio e di gas.

L’Iran è inoltre il terzo fornitore di petrolio per la Cina, dopo l’Arabia Saudita e l’Angola (secondo i dati dello scorso anno), ed è il secondo fornitore dell’India, che è entrata recentemente a far parte dei membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Ulteriori sanzioni ONU contro l’Iran andrebbero inevitabilmente a colpire il settore energetico iraniano, danneggiando gravemente gli interessi di questi paesi. Lo scenario di un attacco militare sarebbe ancora peggiore, poiché farebbe schizzare alle stelle i prezzi del greggio e causerebbe una crisi petrolifera (determinata dal venire meno della produzione iraniana e dalla possibile chiusura dello Stretto di Hormuz) di cui Cina e India, che notoriamente dispongono di scarse riserve, sarebbero le prime vittime.

EUROPA

Il Regno Unito e la Francia hanno chiesto “nuove e forti sanzioni “. Il ministro degli Esteri francese Alain Juppé ha sollecitato la convocazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ritenendo necessarie qualora “l’Iran rifiuti di attenersi alle richieste della comunità internazionale e respinga tutte le iniziative serie di cooperazione” delle “misure senza precedenti”.

In una dichiarazione alla Camera dei Comuni il ministro degli Esteri britannico William Hague ha dichiarato: “Qualora Teheran non entri in serie negoziazioni dobbiamo continuare ad aumentare la pressione e stiamo valutando con i nostri partner una serie di misure aggiuntive in tal senso“. Anche il Regno Unito quindi lascia l’opzione militare sul tavolo.

Infine Catherine Ashton, rappresentante dell’Ue per gli affari esteri ha affermato che il recente rapporto sul programma nucleare iraniano “aggrava seriamente” le preoccupazioni dell’Unione Europea.

ISRAELE

In Israele la crisi economica morde come mai dalla fondazione dello Stato ebraico e la liberazione di Gilad Shalit, appagando parte dell’opinione pubblica, necessitava di una contro mossa per equilibrare il suo esecutivo che si regge sui falchi guidati dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.

Oggi bisogna capire quanto tutta questa manovra di accelerazione nei confronti dell’Iran voglia solo essere uno strumento di pressione e quanto, invece, punti a creare un clima favorevole a un attacco nell’opinione pubblica internazionale.

La storia insegna che le gravi crisi economiche mondiali, spesso, hanno portato le classi dirigenti a ‘investire‘ in un conflitto. E’ questo il caso? Di sicuro le parole del presidente israeliano Shimon Peres non sono rassicuranti. Lungi dall’essere un uomo di pace, bisogna ammettere che però raramente Peres ha usato – come ha fatto il 4 novembre scorso – toni così foschi. ”L’opzione militare si avvicina”, ha ventilato Peres.

Israele rimane senza dubbio il paese più propenso all’opzione bellica contro Teheran. Ma al di là della retorica di Netanyahu, non tutti nel governo di Tel Aviv sono favorevoli a una simile ipotesi, e soprattutto ad essa si oppongono i vertici della sicurezza nazionale. Tuttavia questa opposizione diminuirebbe considerevolmente se ad assumersi l’onere dell’attacco fossero gli Stati Uniti.

L’obiettivo a breve termine di Israele era fare in modo che la propria minaccia di intervenire militarmente, affiancata dalle nuove “prove” fornite dal rapporto dell’AIEA, spingesse la comunità internazionale ad adottare una posizione più dura nei confronti di Teheran, sotto forma di nuove sanzioni internazionali.

Ad ogni modo il governo israeliano potrebbe essere tentato dall’idea di un attacco preventivo contro le installazioni nucleari iraniane, in un momento in cui il presidente Obama non è nelle condizioni di contrastare le lobbies ebraiche e cristiane e mentre l’Europa è assorbita dalla crisi finanziaria.

STATI UNITI

A Washington l’attuale amministrazione sembra intenzionata a percorrere la strada delle sanzioni dure e dell’isolamento internazionale di Teheran, ma al momento non ritiene praticabile l’azione militare. Lo ha detto chiaramente il segretario alla difesa Leon Panetta, che ha sottolineato i rischi e la futilità di un attacco che potrebbe tutt’al più ritardare il programma nucleare iraniano di qualche anno. Questa tesi è condivisa anche dai vertici militari.

Tuttavia negli Stati Uniti vi è un fronte interventista, costituito dai principali candidati repubblicani alla prossima presidenza, dalla potente lobby filo-israeliana dell’AIPAC e da una serie di think-tank di orientamento neocon, che sta acquisendo slancio e compattezza.

La lobby israeliana negli Usa non ha perso tempo, premendo in Congresso per l’approvazione di misure punitive contro la Banca centrale dell’Iran e per una legge che vieti ogni contatto diplomatico con l’Iran a meno ché non sia in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Ovviamente molte di queste posizioni aggressive sono espresse principalmente a fini elettorali, rappresentando un’arma per colpire Obama nella prossima campagna presidenziale. Tuttavia, sarebbe un errore sottovalutare la determinazione dei “falchi” della destra americana, tanto più se si tiene conto che l’inevitabile fallimento delle sanzioni riporterà in primo piano l’opzione militare. Esiste dunque il pericolo che Obama si lasci “ricattare”: la rielezione in cambio di una nuova guerra.

Chi negli Stati Uniti si oppone a quest’eventualità ne ha ben chiare le disastrose conseguenze: lievitazione del prezzo del greggio fino a 300 o 400 dollari al barile e corsa al riarmo in tutto il Vicino Oriente e in Asia Centrale, come ha evidenziato anche il Ministro degli Esteri israeliano Barak.

Ma nel frattempo, come ha detto lo stesso Obama, tutte le opzioni restano aperte. In quest’ottica si spiegano i 4900 ordigni ad alta precisione venduti all’Arabia Saudita, storico antagonista dell’Iran e quindi pronto ad appoggiare l’assedio nei confronti del vicino. Secondo Sergei Druzhilovsky, professore all’Istituto di Relazioni Internazionali di Mosca, lo scopo degli Usa sarebbe quello di provocare una risposta irrazionale da parte dell’Iran e giustificare così l’uso della forza armata. La forza statunitense risiederebbe infatti nelle sue basi in Arabia Saudita, Kuwait e Bahrein oltre ché nella flotta stanziata nel Golfo Persico, più che sugli arsenali dei singoli paesi alleati.

Senza contare che questo sì, è un ottimo modo per combattere la recessione economica (60 miliardi di dollari di vendite all’Arabia Saudita e 1,25 miliardi all’Oman).

A proposito di provocazioni, appare quanto meno bizzarra la serie di coincidenze che hanno di recente colpito l’Iran, che nei mesi scorsi è stato vittima di una serie di attacchi – dall’uccisione dei suoi scienziati nucleari ad azioni di sabotaggio delle sue strutture, al worm “Stuxnet”, un potente virus che ha mandato in tilt le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Tali attacchi sono stati attribuiti a un’azione congiunta di diversi servizi di intelligence occidentali, probabilmente in primo luogo del Mossad in collaborazione con i servizi americani.

Anche la recentissima esplosione alla base missilistica di Bid Ganeh, in cui sono rimasti uccisi 17 esponenti di spicco della Guardia Rivoluzionaria iraniana, è stata attribuita da alcuni all’azione di servizi stranieri, forse israeliani. Lo scrive il Guardian, citando fonti anonime interne agli apparati di sicurezza iraniani. Il governo iraniano ufficialmente non ha lanciato accuse e non ha parlato di attacchi di potenze straniere ma secondo fonti del quotidiano britannico, Teheran è sempre più convinta che si sia trattato di una vera e propria operazione militare dietro la quale si riconosce l’ombra del Mossad.

Accuse pesanti, che si aggiungono a quelle degli Stati Uniti nei confronti di Teheran, accusata di preparare attentati contro obiettivi israeliani e sauditi nel territorio degli Usa.

Queste azioni naturalmente aumentano il rischio di una rappresaglia da parte iraniana, o addirittura potrebbero essere pianificate proprio con questo obiettivo, visto che secondo alcuni una reazione da parte di Teheran potrebbe fornire il pretesto per un attacco militare contro le sue installazioni nucleari.

Quello che ci si può attendere nei prossimi mesi è pertanto una prosecuzione della politica delle sanzioni, dell’assedio militare e delle operazioni “sotto copertura” volte a sabotare il programma nucleare iraniano.

CONCLUSIONI

La diversità di posizioni sulla questione del nucleare iraniano potrebbe trovare comunque un minimo comune denominatore. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non sembrano escludere la possibilità di un attacco militare a Teheran, ma continuano a credere nell’efficacia di una nuova serie di sanzioni internazionali. La Germania e la Francia giudicano invece impensabile un attacco, ma sarebbero pronti ad un inasprimento delle sanzioni. Alla fine anche Russia e Cina potrebbero cedere all’imposizione di nuove sanzioni per evitare le pericolose conseguenze di un attacco israeliano. Le minacce israeliane di un raid preventivo, come sostenuto da più parti potrebbero essere un bluff, ma le conseguenze di un eventuale attacco, sarebbero troppo pericolose  per correre il rischio, e questo costringerebbe le altre potenze a continuare le pressioni sull’Iran per tenere sotto controllo il fattore Israele.

Un attacco all’Iran infatti rischierebbe di provocare una catastrofe per via dell’intreccio di tre crisi principali. In primo luogo, una crisi petrolifera che potrebbe mettere in ginocchio le economie occidentali. Inoltre, l’attacco all’Iran e le possibili risposte iraniane potrebbero innescare una crisi politica regionale e destabilizzare molti paesi arabi, tra cui l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo. Infine, una vera e propria crisi globale: il Vicino Oriente, oggi, si trova in bilico tra la sfera strategica occidentale e l’emergente sfera strategica asiatica, dominata dalla Cina, o euro-asiatica con la Russia. L’Iran è ormai legato alla sfera euro-asiatica (ancor di più dopo la recente richiesta di diventare membro a pieno titolo dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai): attaccare militarmente l’Iran vorrebbe dire minacciare gli interessi strategici della Russia e della Cina e portare il mondo sull’orlo del baratro.

Ciò significa che a livello internazionale la fase di stallo sulla questione nucleare iraniana proseguirà, mentre le tensioni fra Teheran da un lato e Israele, gli Stati Uniti e l’Europa dall’altro si inaspriranno a causa delle continue minacce israeliane, delle possibili ulteriori sanzioni da parte europea ed americana, e del fatto che tutto ciò non distoglierà l’Iran (così come non l’ha distolto finora) dal portare avanti il proprio programma nucleare civile.

 

* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma

 

 

 

 

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Dopo la Primavera: dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali

$
0
0
Sabato 26 novembre 2011, alle ore 16, si è tenuta a Fontenuova (RM), presso la Biblioteca Provinciale di Via Machiavelli, la conferenza Dopo la “Primavera”. Dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali.
Sono intervenuti come relatori: Giacomo Guarini (ricercatore presso l’IsAG), che parlerà di “Medio e Vicino Oriente dopo le rivolte”, e Fabrizio Di Ernesto (giornalista dell’ASI e saggista), che tratterà de “Il caso libico”.
L’organizzazione è stata a cura dell’Associazione Millennium, in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e Fuoco Edizioni. 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“La sfida dell’India”: l’1 dicembre a Trieste

$
0
0
L’associazione Strade d’Europa, grazie al contributo dell’Università degli Studi di Trieste ed in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) organizza il convegno La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?. L’evento, che rientra nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia, si svolgerà giovedì 1 dicembre alle ore 17:30 presso l’aula D1, al primo piano della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori in via Filzi 14 a Trieste.
Il seminario si aprirà con l’intervento di Vincenzo Mungo, capo servizio Redazione esteri di Radio RAI e saggista, nonché autore per i tipi delle Edizioni all’insegna del Veltro del volume che dà il titolo all’incontro: si tratta di un necessario approfondimento sull’India, membro a pieno titolo del BRICS e già pilastro dei Paesi non allineati, al fine di capire se le sue caratteristiche culturali, storiche e sociali sono gli ingredienti per farne una nuova superpotenza oppure verranno annullati per effetto di quel processo di globalizzazione e annichilimento delle specificità che il mondo occidentale sta imponendo nel globo.
Seguiranno gli interventi di Arduino Paniccia, docente di Studi Strategici presso l’ateneo cittadino, e di Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG per l’Asia Meridionale (e autore del saggio Progetti di Egemonia), i quali analizzeranno soprattutto i rapporti che intercorrono tra l’India e le potenze limitrofe (Cina, Pakistan), con cui i rapporti sono spesso risultati problematici, ma anche le relazioni che Nuova Delhi intrattiene con Mosca e Washington, aspetto oltremodo prezioso per comprendere il ruolo planetario che questa potenza potrà svolgere. Il convegno, coordinato da Lorenzo Salimbeni, frequente contributore a Eurasia. Rivista di studi geopolitici, si concluderà con un dibattito aperto al pubblico; per informazioni stradedeuropa@hotmail.it.
facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Informazione e “soft power” tra Russia e Europa: intervista a T. Graziani

$
0
0

Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”, è stato intervista da Eliana Astorri per “Radio Vaticana” il giorno 23 novembre, alla vigilia della sua partenza per la conferenza internazionale di Parigi su Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa. L’audio dell’intervista può essere ascoltato cliccando qui. Di seguito proponiamo la trascrizione integrale.

 

 

Prima di introdurre il convegno, ci può presentare la rivista “Eurasia”?

 

Eurasia” è una rivista di studi geopolitici giunta ormai al suo ottavo anno di vita. È una rivista che si è accreditata nell’ambiente accademico e scientifico ma anche in quello giornalistico e della comunicazione in senso più ampio. Tratta i temi della geopolitica attuale ed offre analisi e prospettive di medio e lungo termine. In particolare focalizza la sua attenzione nella massa continentale eurasiatica e da un anno a questa parte, sulla base degli studi e del gruppo di lavoro creatosi attorno alla rivista “Eurasia”, è stato fondato un istituto di studi geopolitici, l’IsAG.

 

Domani a Parigi la conferenza internazionale sulle questioni legate al giornalismo internazionale contemporaneo: qual è lo scopo di questo incontro?

 

Lo scopo di questo incontro è sostanzialmente di trovare dei punti di convergenza tra gli operatori della comunicazione russi e dell’Unione Europea. In particolare saranno dibattute alcune tematiche, che sono quelle relative all’interesse nazionale ed al giornalismo che si occupa delle relazioni internazionali. Poi saranno dibattuti temi legati alla deontologia, e dunque al comportamento etico dei giornalisti e dei loro editori. In particolare ci si soffermerà sull’influenza dei mass media sulla formazione della cosiddetta opinione pubblica. Questo è un tema abbastanza delicato se messo in rapporto alle relazioni internazionali: l’influenza del giornalismo è spesso coerente con alcune dottrine geopolitiche. Infatti si parla spesso del giornalismo come strumento del soft power.

 

Globalizzazione e i moderni strumenti di comunicazione, dal web ai social network, hanno cambiato o stanno cambiando il modo di fare informazione?

 

Certamente: l’hanno cambiato e c’è un’evoluzione in itinere, continua. C’è un effetto massiccio dell’informazione ed un ventaglio d’informazioni veramente enorme al quale ancora non siamo abituati. Quindi occorrerà del tempo, anche da parte di chi ascolta, legge e s’informa, per metabolizzare e filtrare in materia opportuna le informazioni erogate dai mass media.

 

Mentre i classici mezzi d’informazione (stampa, televisione) che ruolo hanno oggi nelle relazioni internazionali?

 

I mezzi tradizionali hanno ancora una grande forza ed incidono moltissimo nei comportamenti dei governi. Basta pensare ad esempio ad alcuni importanti giornali e riviste d’informazione economica, che riescono in pratica ad alzare o abbassare il ranking di alcune nazioni ed influenzano anche i comportamenti dei governi. Sono quei giornali che vengono letti da imprenditori, da politici, da intellettuali di alto rilievo e che quindi influenzano, in seconda battuta, l’opinione pubblica.

 

Quale sarà il tema del suo intervento domani alla conferenza?

 

Io mi occuperò proprio della relazione tra mass media e soft power: vale a dire dell’utilizzo e strumentalizzazione dell’informazione, e quindi dei mezzi d’informazione, ai fini d’alcune prassi geopolitiche. In particolare m’occuperò di come certa stampa cerchi d’influenzare ed orientare l’opinione pubblica.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“Cuore di lupo”: il 2 dicembre a Roma

$
0
0
Il 2 dicembre prossimo a Roma presso la libreria Altroquando in Via del Governo Vecchio 80 alle ore 18.30 si terrà la presentazione della nuova edizione italiana (sempre in versione bilingue serbo/italiana) del libro di Marilina Veca “Cuore di lupo/Vucje srce”, romanzo basato su storie vere di serbi scomparsi in Kosovo fra il 1998 e il 2000 e verosimilmente espiantati degli organi vitali destinati all’immondo mercato degli organi umani.
Siete tutti invitati. La serata sarà accompagnata al pianoforte dal Maestro Marco Russo. L’autrice parlerà del libro introdotta dall’On. Falco Accame presidente dell’Associazione Nazionale Vittime Militari e familiari delle vittime, dal Dott. Stefano Vernole della rivista di geopolitica Eurasia e dal saluto dell’Ambasciatrice della repubblica di Serbia Ana
Hrustanovic’. Seguirà buffet. 
facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Andrea Perrone, L’artiglio del Drago, Strategia, Armamento e Capacità dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese

$
0
0
Nell’ambito della Fiera della Piccola e Media Editoria “Più Libri Più Liberi”, si terrà la presentazione del saggio del giornalista Andrea Perrone “L’artiglio del Drago – Strategia, Armamento e Capacità dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese”.

Saranno presenti l’Autore e Tiberio Graziani (Direttore della Rivista di Geopolitica Eurasia e Presidente dell’ISaG).

Coordinerà l’editore Luca Donadei.

Domenica 11 dicembre, ore 19.00 – Bibliolibreria “Più Libri Più Liberi”. Palazzo dei Congressi (EUR), Roma.

L’evento geopolitico più importante degli ultimi anni è senz’altro l’ascesa inarrestabile della Cina. A partire dal 1979, con le liberalizzazioni introdotte da Deng Xiaoping, la Repubblica popolare è cresciuta ad una velocità senza paragoni, divenendo così, complice il fatto di possedere una popolazione da 1,4 miliardi di abitanti ed essere la seconda economia al mondo in termini assoluti.

Oggi Pechino è divenuta anche la seconda Potenza al Mondo, subito dietro gli Stati Uniti, per quel che concerne le spese militari, pari a 1,6 mila miliardi di dollari, l’1,3 per cento in più rispetto al 2009. Tutti questi elementi non possono che provocare serie ripercussioni sugli scenari internazionali.

Tuttavia, occorre sottolineare che la crescita cinese, è finora avvenuta in un clima pacifico favorendo l’espansione economica. Ma proprio ora si comincia a delineare una strategia di ampliamento della sfera d’influenza della RPC che finirà, molto probabilmente, col creare tensioni con gli altri attori internazionali.

Attualmente la Repubblica popolare è impegnata in un’opera di ristrutturazione e ammodernamento industriale e militare e ha costruito una propria rete di potere strategico, assicurandosi il controllo o la semplice presenza in numerose aree strategiche asiatiche e non solo per soddisfare le esigenze di un’economia notevolmente energivora.

La strategia cinese di vincere senza combattere, conquistando i mercati internazionali e rivendicando il controllo del Mar Cinese meridionale non è però gradita a Washington che per questo è intenta in una manovra di accerchiamento, attraverso molteplici alleanze militari con i Paesi dell’Asia orientale e meridionale. Da qui ai prossimi 20 anni però il divario tecnologico tra la Cina e la Superpotenza americana potrebbe essere colmato, mettendo a rischio la pace e il dominio unipolare degli USA.

Pagine 116, Formato 14cm x 20,6cm, ISBN 9-78889736323-1, Prezzo: Euro 14,00

Andrea Perrone è giornalista professionista presso la redazione del quotidiano Rinascita, occupandosi in particolare di politica estera. Per i tipi della Fuoco Edizioni è autore dei saggi “Arktika” (2009) e “Alla conquista dell’Antartide” (2011).

Prefazione a cura del Generale di Corpo D’Armata Fabio Mini

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’interventismo militare di Obama di fronte all’avanzata commerciale della Cina in Africa

$
0
0
Il presidente Obama usa la propria esperienza di costituzionalista per spargere la violenza e imporre il proprio diktat imperiale in Africa. Ha mosso guerra alla Libia per negare infine di averla fatta. Invia truppe in Uganda ed altre nazioni dell’Africa centrale, proprio nel momento in cui l’Uganda scopre di possedere immense riserve di petrolio. I militari sono in Uganda per proteggere il paese, il cui esercito è molto preparato, o l’obiettivo è tracciare una frontiera per contrastare l’”avanzata commerciale cinese nel bacino del Congo”?
Ancor più emblematiche dei recenti interventi militari sono state le analisi giuridiche che sono state offerte dall’amministrazione Obama per giustificarli. Contrariamente a quel che si crede, la legge statunitense non permette al Presidente il dispiegamento di truppe secondo la propria volontà, anche se è il Comandante in Capo. La costituzione USA dà il potere di dichiarare guerra solamente al Congresso. 

L’Africom in soccorso delle brigate razziste anti-neri
Esistono alcune emergenze che rendono necessario il ricorso alla forza militare prima di una formale dichiarazione di guerra. Il Congresso vota quindi una Risoluzione sui Poteri di Guerra (War Power Resolution) autorizzando il Presidente al ricorso alla forza militare nel caso che una legge specifica lo permetta o nel caso che gli Stati Uniti siano sotto attacco. Abbiamo il diritto di chiederci se le circostanze che potrebbero giustificare giuridicamente l’utilizzo della forza in Libia e Uganda siano presenti. Tuttavia, questo non è stato un ostacolo per un’amministrazione che sembra determinata a collocare le forze statunitensi in suolo africano.
Quando i “ribelli” libici, che si autodefinivano “Brigata per la liberazione dagli schiavi/pelli nere”, e altri hanno cominciato il loro attacco contro il governo libico, accompagnati dal pestaggio e linciaggio sistematico dei neri, l’Africom (il commando africano degli Stati Uniti) si è precipitato in soccorso di questa massa violenza mascherata come rivoluzionaria. In questo modo, hanno permesso la messa in moto di una massiva invasione della NATO, che è culminata nell’odioso assassinio di Muammar Gheddafi. Quando le ostilità hanno avuto inizio, il Congresso non aveva dichiarato guerra, e non esisteva alcuna legge che permettesse un attacco contro questo paese, né la Libia aveva attaccato in alcun modo gli USA. Ma, in risposta a queste problematiche, Obama, eminente specialista di diritto costituzionale, ha volontariamente ignorato la Costituzione per assecondare la Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU.
In qualunque modo s’interpreti la Risoluzione 1973, è impossibile concludere ragionevolmente che, eccetto il ricorso immediato alla forza per un cambiamento di regime, escludesse tutte le altre soluzioni della crisi libica. Essa si appellava in particolare all’Unione Africana perché inviasse “il suo Alto Comitato ad hoc in Libia per facilitare il dialogo in modo da portare a riforme politiche giudicate necessarie per trovare una soluzione pacifica e duratura”.

Motivazione trovata: le atrocità delle Armate del Signore
Parallelamente, nel caso dell’Uganda, l’Amministrazione Obama ha recentemente inviato cento militari USA a cui aggiungere il dispiegamento di “forze addizionali” entro un mese. La caccia ai comandanti dell’”Armata della Resistenza del Signore” (dichiarata responsabile di atrocità su vasta scala e di distruzioni per più di vent’anni) è stata motivata dalla necessità di servire “gli interessi della sicurezza nazionale americana e la politica estera”. Nuovamente, come nel caso della Libia, non vi è stata alcuna dichiarazione di guerra del Congresso contro l’Armata della Resistenza del Signore. Obama rivendica la possibilità di inviare truppe equipaggiate al combattimento in Uganda sulla base di una legge del 2010, chiamata “Disarmo dell’Armata della Resistenza del Signore e Recupero del Nord dell’Uganda”.
Effettivamente, quella legge dichiara che la politica ufficiale degli Stati Uniti è di “lavorare con i governi regionali a una soluzione globale e permanente del conflitto in Uganda e nelle altre regioni toccate, fornendo un sostegno politico, economico, militare e informazioni per uno sforzo multilaterale nella protezione dei civili”.
Tuttavia, questo testo impone alcune istruzioni specifiche al Presidente, il cui ruolo è semplicemente di elaborare un piano che dovrebbe :
-rinforzare gli sforzi della NATO e dei governi della regione per fronteggiare l’Armata della Resistenza del Signore;
-valutare le opzioni per una cooperazione USA con I governi regionali;
-presentare un piano elaborato tra diversi agenti per assestare la politica USA in rapporto all’Armata della Resistenza del Signore;
-descrivere gli equilibri diplomatici nella regione.
Anche se supponessimo che il potere di dispiegare truppe in Uganda fosse implicito nella legge del 2010, il testo è sufficientemente ambiguo da permettere al Presidente Obama di trovare anche, e facilmente, un modo per evitare l’intervento militare. Quindi, tutto porta logicamente a riflettere sul perché l’amministrazione Obama si sia sentita obbligata a distorcere o interpretare la legge in un modo che portasse all’uso di forze armate in Libia e Uganda.

L’Uganda, presto un grande produttore di petrolio
Per quanto riguarda la Libia, la semplice risposta di molti è che vi sia un interesse a prendere il controllo totale delle riserve petrolifere del paese. L’incessante campagna di Gheddafi per l’unità africana e per l’indipendenza totale dall’Occidente ha fornito un incentivo supplementare. Ma l’Uganda, invece? Storicamente, non è mai stato visto come un punto focale per l’intervento militare incentrato sul petrolio.
Un articolo dell’Economist, l’anno scorso, ha fornito qualche risposta, sottolineando: “l’Uganda diventerà presto un produttore [di petrolio] di media statura, al livello di paesi come il Messico. Gli investimenti stranieri in Uganda dovrebbero quasi raddoppiare quest’anno, fino a 3 miliardi di dollari. Si calcola che il paese guadagnerà 2 miliardi di dollari all’anno per il petrolio, a partire dal 2015.
L’articolo presenta altri dati, che spiegano le motivazioni americane con l’osservazione che il presidente ugandese “…sembra abbagliato dalle promesse cinesi di promuovere la costruzione di una raffineria di petrolio e di favorire la produzione di plastiche e fertilizzanti ugandesi partendo dal petrolio… [M]olti governi e compagnie occidentali, invidiosi, vorrebbero fermare l’avanzata della Cina nel bacino del Congo, con le sue vaste riserve di minerali e legno”.
Il mondo africano sta subendo un numero troppo alto di pressioni. Esse includono il fermo dominio dell’amministrazione Obama sull’Africom , e il ricorso generalizzato alla forza militare, per ptroteggere gli interessi delle corporazioni occidentali. Ma il peggio è l’utilizzo opportunista o la distorsione dei limiti giuridici del potere esecutivo per assecondare gli obiettivi delle multinazionali in Africa. È tragico che popoli di buona volontà possano guardare ad un corpo di leggi e vedere opportunità per una pacifica e produttiva soluzione delle crisi, e nello stesso momento l’amministrazione Obama possa vedere solamente opportunità per la violenza e per l’imposizione del proprio diktat imperiale su di un continente sfruttato e mortificato.

Traduzione : Xavière Jardez – titolo e intertitoli : AFI-Flash
* Titolo originale: Obama’s Tragic Rorschach Perceptions of the Law, Africa and Military Intervention (Black Agenda Report – 25/10/11)
http://www.blackagendareport.com/content/obama%E2%80%99s-tragic-rorschach-perceptions-law-africa-and-military-intervention

Traduzione dal francese di Alessandro Parodi

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

I consiglieri per la politica estera dei candidati repubblicani

$
0
0

Fonte: Réseau Voltaire 23 novembre 2011

Herman Cain è consigliato in politica estera da:
• JD Gordon
• Roger Pardo-Maurer
• Mark Pfeifle

John Huntsman è consigliato da:
• Richard Armitage
• C. Boyden Gray
 
Newt Gingrich ha messo insieme una forte squadra, tratta soprattutto dall’American Foreign Policy Council (AFPC) o che hanno esercitato responsabilità nella comunità dell’intelligence statunitense. L’AFPC, già sostegno forsennato dei Contras in Nicaragua, si è specializzato nel denunciare i pericoli posti da Cina, Iran e Islamismo.
• Norman A. Bailey (quello dello scandalo della BCCI) (Presidente dell’Institute for Global Economic Growth e vice-presidente di The Americas Forum)
• Ilan Berman
• Robert “Bud” C. McFarlane (ex consigliere per la sicurezza nazionale di Ronald Reagan, attuale direttore della ditta britannica dei mercenari Aegis)
• Kenneth deGraffenreid (Institute for World Politics)
• Herman Pirchner, Jr.
• Stephen Yates (consigliere DCI)
• R. James Woolsey (ex direttore della CIA sotto Clinton)
• David Wurmser (stratega e propagandista di WINEP e AIPAC).
 
Mitt Romney è consigliato da:
• Michael Chertoff (ex segretario dell’Homeland Security)
• Norm Coleman (ex senatore)
• Michael Hayden (ex direttore della CIA sotto Bush Jr.)
• Robert Kagan
• Jim Talent (ex senatore)
• Walid Phares
 
Ron Paul ha scelto:
• Bruce Fein
 
Rick Perry è consigliato da:
• John Bolton
• Liz Cheney (figlia dell’ex vice presidente Dick Cheney)
• Victoria Coates
 
Rick Santorum ha scelto:
• Mark Rogers
• Randy Schriver
 
Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’IsAG diviene partner del World Public Forum “Dialogue of Civilizations”

$
0
0
L’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) è lieto d’annunciare d’essere divenuto un partner ufficiale del World Public Forum “Dialogue of Civilizations” (WPC).
Il WPF è nato nel 2002 su iniziativa di rappresentanti della società civile russa, indiana e greca, desiderosi di tradurre in atto la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 9 novembre 2001 sulla “Agenda globale per il dialogo tra civiltà”. Dal 2003, il WPF organizza annualmente un forum internazionale che si tiene a Rodi, cui il presidente dell’IsAG Tiberio Graziani è da qualche anno ospite abituale. Oltre al Forum di Rodi, il WPF promuove numerose altre conferenze internazionali.
Il WPF, che ha le proprie sedi centrali a Mosca e Vienna, è presieduto da Vladimir Jakunin (presidente delle Ferrovie russe, ex ministro), Alfred Gusenbauer (ex cancelliere austriaco) e Fred Dallmayr (professore universitario statunitense).
I partners del WPF includono, oltre all’IsAG, anche l’UNESCO e l’Organizzazione per l’Educazione, la Cultura e la Scienza della Lega Araba: la lista completa è consultabile cliccando qui.
L’IsAG esprime la propria soddisfazione per il riconoscimento implicito in questa prestigiosa partnership, che si ritiene porterà grossi benefici all’Istituto.
facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Quante guerre nel Vicino Oriente?

$
0
0

In effetti, sembrerebbe più corretto parlare di guerre, al plurale. Alcune di queste sono già in corso, altre vengono preparate e minacciate più o meno esplicitamente a seconda dei casi.

Guerra alla “Primavera”

L’improvviso scoppio delle rivolte arabe ha costituito una sfida ideologica e geopolitica sia per Israele che per l’Arabia Saudita. Il rovesciamento di un leader arabo dopo l’altro ha profondamente innervosito la monarchia saudita; allo stesso tempo la rivolta sciita nel vicino Bahrein ha minacciato la stabilità interna del regno sunnita e l’egemonia sulla penisola vis-à-vis con l’Iran. Per Israele la cacciata di Mubarak, insieme a un improvviso peggioramento delle relazioni con la Turchia, ha significato la perdita di due alleati strategici e il crescente isolamento in un momento in cui il favore verso la causa Palestinese sembra crescere globalmente.

I sauditi stanno affrontando la crisi con efficacia spietata: Riyadh, potendo fare affidamento su enormi riserve di denaro liquido, ha adottato un’aggressiva politica di spesa per mettere a tacere il dissenso sia in Arabia Saudita che in altri paesi della penisola araba, schiacciando velocemente la rivolta del Bahrein mentre l’Occidente guardava altrove.

La casa saudita ha inoltre sistematicamente cercato di interpretare le proteste scoppiate nella penisola in chiave settaria. Riyadh ha attribuito le proteste nella propria provincia orientale e in Bahrein alle presunte ingerenze di Teheran, sebbene i leader della minoranza sciita saudita e quelli della maggioranza sciita in Bahrein abbiano quasi sempre rivendicato la propria indipendenza ed essenzialmente basato le proprie richieste su principi non settari improntati alla giustizia sociale e ad una maggiore democrazia.

Dopo che il diffondersi delle rivoluzioni della Primavera Araba aveva costretto Riyadh sulla difensiva, lo scoppio della rivolta siriana ha permesso alla famiglia saudita di passare all’offensiva. La rivolta siriana ha presentato un’opportunità d’oro per dare agli eventi una direzione favorevole ai Sauditi e ad Israele. Se il regime di Assad dovesse essere deposto, preferibilmente da un governo filo occidentale e filo sunnita, l’Iran verrebbe privato del suo alleato chiave e del contatto con Hetzbollah. L’idea, che sia resa esplicita o no, ha fatto breccia sia a Washington che a Londra ed anche in Turchia.

Non vi è dubbio, infatti, che la campagna volta a isolare l’Iran a livello internazionale e quella volta a far capitolare il regime siriano, siano guidate anche dalla possibilità di spezzare l’asse siro-iraniano, e più in generale il cosiddetto “asse della resistenza” – che comprende anche Hezbollah, Hamas e i nazionalisti arabi. In altre parole, si sta assistendo a una convergenza di interessi fra l’intenzione di Washington di rovesciare Assad al fine di allontanare la Siria dall’orbita iraniana e isolare i movimenti della “resistenza” araba (Hamas e Hezbollah), e la volontà dei regimi del Golfo (in primo luogo dell’Arabia Saudita) di riportare la Siria nell’alveo arabo, e sunnita, isolando l’Iran sciita.

La crisi siriana sta determinando una polarizzazione a livello regionale. In Libano, ad esempio, la coalizione del 14 marzo a guida sunnita, filo-occidentale e filo-saudita, si è schierata apertamente a sostegno dell’opposizione siriana, mentre Hezbollah, movimento notoriamente vicino all’Iran e leader della contrapposta coalizione, ha ribadito il proprio appoggio al regime di Damasco.

In questo processo rischia parimenti di essere coinvolto l’Iraq. Baghdad si è opposta alla decisione della Lega Araba di imporre sanzioni alla Siria, non perché il governo iracheno sia un fantoccio di Teheran, ma in primo luogo per fondati motivi interni. Soprattutto, Baghdad teme che, se la Siria sprofondasse in una guerra civile, l’instabilità potrebbe estendersi al territorio iracheno. Il ritiro americano che si concluderà entro la fine di dicembre apre un vuoto di sicurezza in un paese in cui le tensioni fra l’emarginata comunità sunnita e la comunità sciita al potere stanno riemergendo. Queste tensioni potrebbero essere presto sfruttate e alimentate dall’Iran e dai paesi arabi sunniti, pronti ad occupare lo spazio lasciato vuoto dagli Usa.

Nuova guerra a Gaza?

Sembra che sul versante israeliano si profili come sempre più probabile un nuovo intervento nella Striscia di Gaza. La decisione circa la data dell’operazione dipenderà da diversi fattori- valutazioni di intelligence sui probabili obiettivi, condizioni climatiche, lo stato delle truppe regolari e delle riserve e soprattutto la situazione in Egitto. Il dilemma che si pone Israele è: agire mentre Tantawi e i suoi ufficiali sono ancora in carica? Il prossimo regime egiziano sarà presumibilmente anti-israeliano o comunque meno tollerante rispetto all’attuale governo. Inoltre la partecipazione dei Fratelli Musulmani crea un’affinità ideologica e anche geografica con il regime di Hamas nella Striscia.

Un’operazione militare a Gaza, sul modello di “Piombo Fuso”, non lascerebbe indifferente il nuovo regime egiziano, che probabilmente invierebbe le proprie truppe come assistenza o come scudo per i civili. Israele quindi si troverebbe a scegliere tra la continuazione delle operazioni militari e quindi il rischio di un confronto con i soldati egiziani da un lato, e la sospensione delle operazioni nella speranza di evitare l’avvicinamento tra il nuovo Egitto ed Hamas dall’altro.

Questi fattori spingono Israele ad agire in fretta, prima del giugno-luglio 2012. D’altro canto, un’azione immediata potrebbe portare l’attuale regime militare a una fine anticipata: il popolo egiziano si ribellerebbe nuovamente al governo militare. Una dinamica del genere porterebbe a risultati elettorali sicuramente sfavorevoli a Israele. Il risultato finale sarebbe quindi un successo tattico ( per esempio, la decapitazione di Hamas a Gaza) ma un fallimento strategico.

La stagione di cambiamento che ha rivoluzionato il Vicino Oriente ha reso paradossalmente la Giordania l’elemento più stabile tra i vicini di Israele. Non è un caso che il re di Giordania Abdullah II abbia visitato Ramallah di recente, boicottando Gerusalemme e gli uffici del primo ministro Netanyahu e del ministro degli esteri Lieberman. Dunque anche il confine con la Giordania sembra sempre più minato. In questo clima non ci sarebbe da sorprendersi se Israele decidesse di agire preventivamente attaccando Gaza, prima che anche quell’area diventi ingestibile. Le decisioni saranno prese a Gerusalemme dallo stato maggiore delle forze di sicurezza guidato da Gantz, ma dipenderanno dagli eventi dei mercati e delle piazze del Cairo.

Guerra all’Iran

Il fatto che le politiche degli Usa in Iraq e in Afghanistan abbiano rafforzato enormemente l’Iran costituisce motivo di forte tensione per l’Occidente e i suoi alleati. La speranza di ammorbidire il regime islamico o di una nuova e più moderata fazione al potere sono state deluse. I politici di destra israeliani hanno da tempo dichiarato l’Iran una “minaccia per la loro esistenza” e spingono per un intervento militare.

Fallito il tentativo di costringere l’Iran a fermare i programmi di arricchimento nucleare, agli Usa, Israele e alleati non rimane che svelare le proprie intenzioni, intensificando le minacce di bombardare l’Iran. Sanzioni severe hanno colpito il regime iraniano e lo stanno spingendo sempre di più all’angolo. Incidenti misteriosi e sabotaggi in diverse installazioni militari iraniane continuano. Perfino funzionari americani, hanno confermato – sebbene in via non ufficiale – l’esistenza di un programma di “operazioni sotto copertura” portato avanti da parte americana, a cui si aggiunge un “marcato attivismo” dei servizi israeliani. A conferma di ciò, domenica 4 dicembre, un sofisticato drone americano dotato di tecnologia “stealth” (cioè, teoricamente invisibile ai radar) è caduto nelle mani degli iraniani (in pieno territorio iraniano, a oltre 200 chilometri dal confine con l’Afghanistan), mettendo in luce fino a che punto si sia spinto il programma di spionaggio americano ai danni dell’Iran.

Come ha affermato Mark Hibbs, esperto nucleare presso il Carnegie Endowment, l’intensificarsi delle operazioni sotto copertura indica che Stati Uniti e Israele per il momento stanno concentrando le proprie energie su questo fronte, invece che su un attacco militare convenzionale. Tuttavia il timore è che “proseguendo su questa strada, scateniamo forze che non saremo in grado di controllare”.

Risultato di tutto ciò è un Iran sempre più belligerante e un clima interno incandescente, come ha evidenziato la presa violenta dell’Ambasciata Britannica a Teheran. Tale assalto è avvenuto probabilmente con l’acquiescenza della Guida Suprema e dei suoi fedelissimi, all’indomani dell’imposizione di sanzioni contro la banca centrale iraniana da parte di Londra.

Guerra delle sanzioni

Finora lo strumento preferito da Usa, Europa e Lega Araba restano le sanzioni economiche che sempre più severamente colpiscono Siria ed Iran. Tuttavia, a causa degli stretti rapporti economici con Damasco e Teheran, difficilmente Mosca e Pechino si allineeranno alle posizioni occidentali riguardo alla crisi siriana ed a quella iraniana. Al contrario, queste due grandi potenze potrebbero rappresentare una vitale “retrovia” per il regime di Damasco e la Repubblica islamica iraniana, e per i loro alleati regionali, in quella che si prefigura come una nuova guerra fredda ad altissima tensione, che rischia in ogni momento di sfociare in conflitti aperti nella regione dalla portata potenzialmente devastante.

Quando i venti del cambiamento hanno raggiunto il popolo siriano, la Lega Araba non è corsa in aiuto di Assad, come aveva fatto nel caso del Bahrein. Non riuscendo a rompere il legame tra il regime di Assad e l’Iran, la Lega ha espulso la Siria, imponendogli sanzioni severe così come hanno fatto gli Usa e gli alleati occidentali. Man mano che la rivolta s’intensifica diventano sempre maggiori i rischi di una vera e propria guerra civile in un paese multi-etnico e multi-religioso com’è la Siria.

In Libia l’Occidente ha potuto facilmente imporre una no-fly zone e sostenere gli oppositori di Gheddafi; non può fare la stessa cosa in Siria, almeno non con la stessa facilità. In primo luogo perché parte della Siria è sotto occupazione israeliana e un attacco, soprattutto se fossero coinvolti alcuni stati arabi, potrebbe essere interpretato come una presa di posizione a favore di Israele. In secondo luogo, le capacità militari e difensive della Siria sono molto più elevate che in Libia. Il clan di Assad può contare ancora su un grande supporto, non solo fra gli Alawiti e tra le fila dell’esercito, ma anche fra diverse minoranze e forze laiche che temono la crescente influenza dei Fratelli Musulmani e dei Sauditi nella regione. Soprattutto, la Siria ha anche degli alleati su cui far affidamento.

Il fatto che la rivolta popolare in Siria sia caduta ostaggio delle dinamiche geopolitiche regionali, e che la frammentata opposizione siriana sia sostenuta da tutti i nemici storici del regime di Damasco e dell’alleanza siro-iraniana, paradossalmente rafforza Assad ricompattando il fronte arabo nazionalista e le forze della “resistenza”, e addirittura lo stesso asse con Teheran.

Sembra sempre più chiaro che la protesta popolare per una vita migliore, più giusta e più dignitosa sia stata soffocata in una lotta spietata per l’egemonia geopolitica, giocata sempre più su esplosive linee settarie. E come dice un proverbio africano, quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata.

Corsa alle armi

Tutti si sentono insicuri e isolati, tutti si stanno armando fino ai denti, spostando forze e preparandosi per un eventuale confronto. Sembra quasi una nuova guerra fredda, eccetto per il numero maggiore di attori indipendenti, cosa che rende il calcolo più complicato e i rischi molto più alti.

In Siria stanno affluendo crescenti quantitativi di armi attraverso il confine giordano, turco e libanese e gli analisti affermano che il traffico bellico proveniente dall’estero potrebbe intensificarsi rapidamente. Fra l’altro, alla fine di novembre il Daily Telegraph ha rivelato la poco rassicurante notizia di colloqui segreti tra i ribelli siriani e le nuove autorità libiche, le quali avrebbero offerto armi e addestratori. Dai paesi del Golfo starebbero invece giungendo all’opposizione in Siria soprattutto ingenti finanziamenti e materiale per le telecomunicazioni.

La Nato ha stabilito un centro di comando e controllo nella provincia meridionale turca di Hatay, dove truppe britanniche e intelligence francese stanno addestrando l’Esercito Libero Siriano (ELS). L’obiettivo: fomentare una guerra civile che inghiotta il Nord della Siria. Ora arriva la conferma, attraverso il sito web dell’ex informatore del FBI Sibel Edmonds, che la manovra sta effettivamente avvenendo e che coinvolge anche la Giordania. Edmonds cita fonti locali secondo cui “centinaia di soldati che parlano lingue diverse dall’Arabo si stanno muovendo avanti e indietro tra la base aerea di King Hussein ad al-Mafraq e villaggi giordani adiacenti al confine siriano”.

Conclusioni

Diversi sono gli scenari ipotizzabili e i più pessimistici diventano anche i più probabili con il passare dei giorni.

In Siria, se Assad si decidesse ad abbandonare i suoi legami con l’Iran, la Lega Araba potrebbe cercare una via d’uscita dalla crisi e salvare così il suo regime. Se l’insurrezione si espandesse e il regime siriano cedesse alle pressioni interne ed esterne per accettare una “exit strategy”, la crisi potrebbe essere evitata. Ad ogni modo, questi scenari sembrano meno probabili giorno dopo giorno. La storia ci insegna infatti che i dittatori non sono capaci di imparare dal passato.

Rimangono altri scenari, incluso il più pericoloso. Dal momento che le sanzioni non fermeranno la repressione del regime siriano, nessuna no fly-zone può essere imposta. L’aviazione siriana e il sistema di difesa aereo non la rispetterebbero, causando un’escalation nel conflitto aereo e la possibilità di coinvolgere paesi occidentali e arabi nel bombardamento di installazioni siriane. Il regime siriano potrebbe decidere di non aspettare la sua caduta, e potrebbe provare a provocare Israele con il lancio di missili oppure coinvolgere Hetzbollah a fare lo stesso; Hetzbollah, sapendo che la maggior parte della sua forza deriva dai suoi alleati siriani e iraniani, potrebbe acconsentire. Diversamente che nell’invasione dell’Iraq del 1991 quando gli Usa hanno dissuaso Israele dal rispondere agli attacchi missilistici iracheni, il governo israeliano molto probabilmente stavolta risponderebbe con la forza.

Se Israele dovesse entrare in scena, il quadro cambierebbe drammaticamente. Nessun paese arabo, neanche l’Arabia Saudita, l’Unione degli Emirati Arabi o il Qatar oserebbero schierarsi al suo fianco. Alla fine, il regime iraniano, vedendo i suoi due principali alleati minacciati e sapendo di essere il prossimo sulla lista, potrebbe iniziare a supportarli più attivamente, cosa che aumenterebbe di molto le probabilità di un bombardamento dell’Iran da parte degli Usa e di Israele. Il ritiro statunitense dall’Iraq inoltre rende possibile per i jet israeliani attraversare lo spazio aereo iracheno senza il permesso statunitense. Molti però sostengono che il costo di tale attacco autonomo sarebbe troppo alto per Israele.

Lo scenario ottimistico per l’Iran sarebbe ovviamente quello di cedere alle pressioni interne e internazionali e rispettare le misure imposte dall’AIEA. Altrimenti, dal momento che le sanzioni non fermeranno le sue ambizioni, l’Occidente potrebbe ricorrere a bombardamenti chirurgici delle installazioni militari, cosa che potrebbe spaventare il regime islamico e costringerlo quindi a fermare i piani di arricchimento. Tuttavia ciò appare molto improbabile dal momento che la posizione del leader supremo Khamenei e le fazioni a lui vicine ne uscirebbe notevolmente indebolita. Lo scenario più probabile è che dopo un attacco il regime si muoverebbe immediatamente per rispondere con la forza.

Ad esempio, chiudere lo stretto di Hormuz semplicemente affondando una nave bloccherebbe il passaggio di circa 15 milioni di barili, o del 40% del traffico internazionale di petrolio giornaliero. Il nuovo oleodotto di Abu Dhabi che bypassa lo stretto e che diventerà operativo a dicembre, sarà capace di convogliare solo 2 milioni circa di barili al giorno, e non sarebbe quindi capace di bilanciare l’enorme impatto negativo sulla fornitura globale e sul prezzo del petrolio. Il regime iraniano potrebbe anche coinvolgere gli alleati sciiti iracheni e gli Hazara afghani nel conflitto.

L’Iran non può essere paragonato all’Iraq, all’Afghanistan o alla Libia. Il regime islamico ha capacità militari molto più ampie. È un paese molto più grande con la capacità di mobilitare una sezione della popolazione così come i suoi legami regionali. Se ricordiamo i fallimenti dell’Occidente nelle guerre relativamente più semplici in Iraq e in Afghanistan, e come queste “missioni” non possano neanche lontanamente essere considerate compiute (checché ne dicano i loro fautori), possiamo solo immaginare i risultati di una guerra molte volte più grande e complessa.

Qualsiasi conflitto armato fra questi attori di sicuro si propagherà ben oltre i confini dei principali stati belligeranti. Con i loro fragili sistemi politici e le divisioni settarie altamente sensibili, i primi ad essere risucchiati in questo vortice sarebbero il Libano e l’Iraq. Considerando i recenti attacchi settari, l’Afghanistan potrebbe essere il terzo. Nel lungo periodo, una guerra regionale avrebbe profonde conseguenze sociopolitiche ed umane, anche al di fuori della regione e specialmente in Occidente, ad esempio nella forma di immigrazione di massa, rifugiati e terrorismo.

Senza dubbio il regime islamico sarebbe alla fine sconfitto, ma il risultato finale sarebbe un Iran disintegrato e il caos in Iraq, Siria, Libano e Afghanistan. Nessuno ne beneficerebbe. La prima vittima di una guerra regionale sarebbe la “Primavera Araba”. Ma i governi occidentali non sembrano far caso a questa realtà.

* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’Egitto dopo la “rivoluzione del 25 gennaio”

$
0
0

Fonte: Strategic culture 

Il primo turno delle elezioni parlamentari egiziane è stato completato. Le elezioni per l’assemblea legislativa del Paese (composta da una camera bassa, o Assemblea del Popolo, e da una camera alta, o Consiglio della Shura – il Senato) si svolgono in tre turni: il primo dal 28 novembre al 5 dicembre; il secondo dal 14 dicembre al 21 dicembre; il terzo dal 3 gennaio al 10 gennaio 2012. In seguito, il 22 gennaio, avrà luogo l’elezione del Consiglio della Shura. La formazione del nuovo parlamento egiziano sarà completata nel marzo 2012.

Una settimana prima delle elezioni, molte città egiziane, tra cui il Cairo e Alessandria, hanno visto la nascita di nuove campagne di protesta che pretendevano la cessione del potere dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) alle istituzioni civili. Le proteste erano iniziate dopo che lo SCAF aveva pubblicato una bozza della Carta Costituzionale, sotto la quale l’esercito si sarebbe, di fatto, sottratto al controllo del parlamento e avrebbe conservato la supervisione sul potere. I gruppi che hanno preso parte a tali campagne di protesta erano principalmente gli stessi che avevano costretto il presidente Mubarak a dimettersi – in altre parole, i movimenti giovanili formati nel periodo della rivoluzione del 25 gennaio, ma anche alcuni dei partiti liberaldemocratici e di sinistra, e parte delle organizzazioni islamiste. Le forze principali del movimento islamista, e in primo luogo la “Fratellanza Musulmana”, si erano tuttavia dissociate dalle proteste e non avevano preso parte alle campagne.

Le manifestazioni che chiedevano l’immediato trasferimento del potere dall’esercito al consiglio presidenziale civile sono degenerate in forti scontri tra i dimostranti e le unità armate, durante i quali sono state uccise più di 40 persone e ne sono state ferite centinaia, compresi dei soldati. Tali scontri sono stati soprannominati dai mass media come “la seconda ondata della rivoluzione egiziana”. Nel suo discorso alla nazione il capo della leadership militare, maresciallo Tantawi, ha confermato la disponibilità dell’esercito a consegnare il potere alle istituzioni civili. Egli ha inoltre accettato le dimissioni del primo ministro Essam Sharaf e ha annunciato la nomina di Kamal Al Ganzouri (figura politica popolare tra gli egiziani durante il regime di Mubarak) come nuovo primo ministro. Ciò ha portato a una parziale normalizzazione della situazione.

I disordini non hanno impedito le elezioni parlamentari, che, come previsto, sono iniziate il 28 novembre. Un terzo delle province egiziane (9 su 27), comprese le città principali (il Cairo e Alessandria), hanno preso parte alle elezioni. L’evidente successo dei partiti che rappresentano l’Islam politico è il primo risultato delle elezioni. Il Partito della Libertà e della Giustizia (Hizb al-hurriya wa al-‘adala), che è il braccio politico dell’associazione della Fratellanza Musulmana, ha conquistato la maggioranza relativa dei seggi (il 40%), seguito dal partito Al-Nour (la Luce), che rappresenta il movimento islamista salafita. Le coalizioni di partiti liberaldemocratici e di sinistra hanno invece ricevuto un numero inferiore di seggi.

Dopo gli eventi del 25 gennaio, in Egitto si sono formati una cinquantina di partiti politici, a fronte dei 24 esistenti sotto Mubarak. Si sono formati anche molti blocchi e alleanze. Quindici movimenti politico-sociali, tra cui partiti liberali, secolari e centristi e organizzazioni pubbliche, così come il partito islamico sufita, si sono uniti nel Blocco Egiziano. Uno degli scopi del blocco, secondo le affermazioni dei suoi leader, è di impedire la vittoria della “Fratellanza Musulmana” alle elezioni parlamentari. Altri cinque partiti e movimenti socialisti hanno formato la Coalizione delle Forze Socialiste. Molti ex membri di quello che era il Partito Nazionaldemocratico al potere (sciolto nell’aprile 2011), che hanno ancora influenza nelle province, hanno anch’essi preso parte alle elezioni parlamentari come membri di altri partiti: il Partito Civile Egiziano, l’Unità, il Partito della Libertà, il Partito Nazionale Egiziano, il Partito per lo Sviluppo dell’Egitto. Anche nuove organizzazioni secolari come la “Coalizione della Gioventù della Rivoluzione”, “Tutti Noi Siamo Khaled Saeed”, il “Movimento Giovanile 25 Gennaio”, i “Socialisti Rivoluzionari” e l’“Associazione nazionale per i Cambiamenti” stanno cercando di giocare un ruolo più significativo nella vita politica del Paese.

I risultati del primo turno delle elezioni hanno rispecchiato in modo obiettivo la correlazione delle forze nel campo dell’Islam politico in Egitto. I leader di tale area politica sono l’associazione dei “Fratelli Musulmani”, la sua ala dei “Giovani Fratelli Musulmani” e il “Partito della Libertà e della Giustizia”, che essi hanno istituito e che è guidato da Muhammad Mursi. Anche il movimento salafita emerso dopo il collasso del regime di Mubarak ha dato vita a partiti politici, tra cui “Al Nour” (la Luce), guidato da Emad Abdel-Gafour, e Al-Asala (Autenticità), guidato dal generale Adel abd al-Maqsoud Afify. Quest’ultimo partito è sostenuto in particolare dal famoso predicatore salafita Mohamed Abdel Maksoud Afii e dallo sceicco Mohamed Hassan.

I “Fratelli” hanno costituito una propria coalizione elettorale, l’“Alleanza Democratica per l’Egitto”, nella quale hanno provato, in primo luogo, a unirsi con il movimento salafita e con alcuni partiti secolari. Le differenze di lungo corso con i rappresentanti salafiti, che sono musulmani più ortodossi rispetto ai Fratelli, e alcuni disaccordi sulla lista di candidati, hanno tuttavia portato al ritiro dei politici salafiti dall’alleanza e la loro partecipazione alle elezioni in maniera autonoma.

È degno di nota il fatto che la coalizione con il Partito della Libertà e della Giustizia (Fratellanza Musulmana) sia stata costruita non solo dai partiti che rappresentano l’Islam politico, ma anche da partiti come il Partito delle Riforme e della Rinascita, da alcuni partiti liberaldemocratici e di sinistra, come “Domani”, il “Partito Laburista”, il “Partito Liberale”, “Egitto Socialista Arabo” e “Dignità” (in arabo Karama). Quest’ultimo partito è diretto da Hamdeen Sabahi, un discepolo di vecchia data dell’ideologia nasseriana.

Gli scopi principali del partito Dignità sono la giustizia sociale e il ritorno dell’Egitto a un ruolo di primo piano nel mondo arabo musulmano. Hamdeen Sabahi intende candidarsi alla presidenza.

L’alleanza dell’Islam politico egiziano con forze liberaldemocratiche e di sinistra mostra una significativa evoluzione dottrinale della Fratellanza Musulmana. Almeno dal punto di vista dei programmi politici, le domande dei Fratelli sono quasi coincidenti con quelle di gran parte dei partiti democratici. I leader di nuova generazione dei Fratelli sono principalmente i rappresentanti d’intellettuali ben istruiti.

Il successo dei partiti che rappresentano l’Islam politico al primo turno delle elezioni parlamentari in Egitto merita una certa attenzione. Le nuove forze politiche, che si erano formate dopo la rivoluzione del 25 gennaio e che non sono legate al regime corrotto di Mubarak, godono della fiducia del popolo. È abbastanza probabile che esse riusciranno a trovare un linguaggio comune con gli intellettuali egiziani dotati di maggior esperienza nella politica del mondo arabo, e che riusciranno a costruire una società più equa basata sulle tradizioni della cultura islamica.

(Traduzione di Andrea Casati)

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Un libro …per le feste: “La sfida dell’India”

$
0
0

Fonte: “Indika

Spetta a Francesco Brunello Zanitti aprire la rassegna di letture consigliate per le feste di Natale che Indika ha deciso di promuovere in questa fine d’anno.  Dalla saggistica, alla narrativa saranno diversi i contributi letterari presentati e proposti all’interno di “Un libro…per le feste”, veri e propri spunti di lettura che non si limitano ad un semplice consiglio, ma che si accompagnano a recensioni e approfondimenti da parte di altrettanti specialisti ed esperti di Asia e di India . Un regalo che Indika fa a tutti i suoi lettori e affezionati. Il primo libro a dare voce a questo appuntamento  è di Vincenzo Mungo, giornalista professionista, che lavora attualmente per il Giornale radio della RAI come capo-servizio della redazione esteri, oltre ad essere consigliere dell’Istituto per gli Affari Internazionali.  L’opera è edita da Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 2010, pp. 208, Euro 20,00.

 

Da alcuni anni la crescita economica dell’India sta attirando l’attenzione di studiosi e analisti, contemporanea al sempre più importante ruolo assunto a livello politico ed economico dalla Cina. Malgrado il paese asiatico presenti numerose contraddizioni e problematiche interne, Nuova Delhi potrebbe aumentare il proprio peso politico a livello internazionale. Alcuni analisti, osservando l’ascesa della Cina e dell’India, hanno messo in evidenza il possibile inizio dell’epoca post-atlantica o post-colombiana nella quale Nuova Delhi e Pechino potrebbero tornare ad essere centri di potere a livello mondiale, come nel XVII secolo, quando erano potenze imperiali economicamente e militarmente superiori all’Europa.
Il libro di Vincenzo Mungo “La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?”, considerando il ritorno del Subcontinente come area determinante per il futuro globale, pone un giusto interrogativo. Nuova Delhi potrà effettivamente diventare una superpotenza? Si tratta di una riflessione necessaria per capire, in un’epoca caratterizzata dal declino occidentale, quali sfide l’India dovrà affrontare per trasformarsi in quel centro di potere che ambisce ad essere.
Per rispondere a questa domanda il volume presenta nella prima parte alcuni aspetti storici del paese al fine di comprendere la realtà indiana contemporanea, iniziando dalla prima grande rivolta contro il colonialismo britannico, la big mutiny del 1857-58. L’India oggi è senza dubbio un paese ufficialmente indipendente dal punto di vista formale. Ma come giustamente sottolinea Mungo, è necessario comprendere se effettivamente l’India sia oggi indipendente dal punto di vista sostanziale e se lo sarà in futuro, facendo riferimento all’assalto dei poteri economici mondiali e della globalizzazione. L’indipendenza effettiva appare un requisito base affinché uno Stato possa diventare una superpotenza. L’analisi storica aiuta efficacemente a comprendere l’India contemporanea, attraverso la considerazione delle diverse forze politiche e sociali che hanno portato all’indipendenza del paese. Vengono analizzati il ruolo assunto dai primi movimenti autonomisti e dal partito del Congresso, ma anche l’azione dei movimenti nazionalisti indù, così come quelli musulmani. Unitamente all’analisi dell’importante ruolo assunto dal Mahatma Gandhi, il saggio presenta altre visioni che presero forza durante il periodo, come ad esempio quelle di uno dei più importanti esponenti del nazionalismo rivoluzionario, Balwantrao Gangadhra Tilak, oppure il pensiero politico di Chandra Bose, maggiore interprete del nazionalismo radicale. In seguito, vengono analizzate le vicende storiche dell’India indipendente: più di trent’anni contraddistinti dal dominio incontrastato da parte del Congresso, contrapposti a una seconda fase, iniziata negli anni ’90, quando il Bharatiya Janata Party conquista per la prima volta la guida del governo.
Nella seconda parte del volume è considerata la situazione socio-economica dell’India a partire dall’indipendenza del 1947 fino all’attuale fase di grande crescita. In sostanza, la difficile fase post-unitaria ha visto il governo indiano ricercare delle riforme adatte alla crescita del paese impoverito dal colonialismo, fino ad arrivare all’espansione economica degli ultimi anni, mantenendo allo stesso tempo le strutture sociali tradizionali. Le fondamenta socio-culturali dell’India sono rimaste intatte con alcune modifiche, sebbene dal punto di vista politico esista un apparato sostanzialmente liberale e democratico simile a quello occidentale che non riconosce il sistema castale.
Malgrado la comune percezione che la crescita economica di un paese comporti come conseguenza inevitabile e necessaria l’emergere di un modello sociale e culturale di tipo occidentale, il caso indiano, ben spiegato da Mungo, dimostra i limiti di questa considerazione. E’ evidente che alcuni aspetti della globalizzazione abbiano modificato considerevolmente la società indiana, se si pensa ad esempio ai centri urbani del paese. Allo stesso tempo, però, esiste una gran parte dell’India che a livello culturale e sociale non è stata toccata da questo cambiamento. Esemplificativa in tal senso è la presentazione nel saggio di Mungo dell’odierno fondamentale ruolo delle caste nella struttura sociale: corpi intermedi tra cittadini e Stato, non ufficialmente riconosciuti dalla legge, ma che hanno tuttavia una grande importanza negli equilibri sociali di un popoloso paese come l’India. Il sistema castale a livello politico ha permesso la scarsa penetrazione del pensiero marxista, poiché questo, basandosi sul concetto di lotta tra classi, non ha fatto presa su un sistema che tende a differenziare gruppi divisi tra loro per appartenenza ad un determinato insieme “familiare-professionale” gerarchicamente organizzato, piuttosto che a un universo economicamente sfruttato. Il sistema castale si è oggi trasformato in una sorta di “neocorporativismo” capace di garantire alcuni equilibri sociali, mantenendo allo stesso tempo alcuni aspetti negativi.
Il gruppo castale, fondato in un certo senso sul vincolo parentale e familiare, appare contrario all’individualismo. La casta spesso protegge il singolo dal totale isolamento, anche di tipo economico, in base a un dovere di aiuto per l’appartenenza alla medesima “famiglia”. E’ evidente che il venir meno improvviso di tale sistema con l’adozione di un modello di stampo occidentale, fondato maggiormente sui criteri del neocapitalismo, potrebbe comportare il crollo di secolari equilibri sociali con conseguenze negative. La crescita economica è forse più lenta rispetto a quella cinese, ma l’India avanza grazie a un sistema misto, nel quale assieme a politiche di liberalizzazione e a un regime democratico, permangono un forte intervento statale e il sistema sociale basato sulle caste. In questo contesto è presentata nel saggio di Mungo l’interessante tesi secondo la quale il sistema castale non comporti degli ostacoli alla crescita economica del paese, nonostante alcuni evidenti aspetti vessatori di tale organismo, la povertà di larghi strati della popolazione indiana, la perdurante crisi dell’agricoltura. Molteplici problematiche portano infatti l’India ad essere solamente il 134° paese nella graduatoria dell’Indice di sviluppo umano.
In ogni caso, un aspetto importante, ricordato nel saggio di Mungo, è il fatto che lo sviluppo economico di un paese deve necessariamente avvenire mediante la considerazione della cultura locale, senza sconvolgere in maniera affrettata sistemi sociali consolidatisi nel tempo, al fine di evitare tensioni e forme di “neocolonialismo” mediante imposizione di modelli provenienti dall’esterno. E’ ovvio che non tutti i sistemi di una determinata cultura possano essere condivisibili, come certi aspetti del sistema castale, o possano mantenersi costantemente uguali nel tempo; è altrettanto vero però che è sempre necessario considerare la cultura di un determinato luogo: le ricette globali che non tengano conto delle condizioni locali e particolari sono destinate al fallimento o al generare gravi squilibri sociali. In sostanza è questa la sfida maggiore che l’India dovrà affrontare, presentata dal libro di Vincenzo Mungo. L’interrogativo se il paese asiatico effettivamente riuscirà a diventare una superpotenza può trovare una risposta affermativa nel caso in cui l’India riuscirà a mantenersi di fatto indipendente dal processo di globalizzazione in atto, con il permanere della propria cultura specifica. A parere dell’autore, opinione condivisibile, l’India sta vincendo la sua sfida perché sta crescendo mantenendo alcune sue peculiarità. Sebbene il “paese legale” s’ispira a modelli liberal-democratici di tipo occidentale, accettando formalmente il neocapitalismo, esiste un “paese reale” dove sono vivi gli aspetti tipici della cultura indiana: permane il sistema castale, cambiato e modernizzato. La struttura familiare è diversa rispetto a quella occidentale, l’individualismo è meno marcato e il matrimonio rimane uno degli elementi base della vita di un indiano. Il ruolo della donna all’interno della famiglia è rispettato, ma è quello fondamentalmente di madre e custode della casa nell’ambito di una struttura strettamente patriarcale che prevede l’endogamia collegata al sistema castale; è necessario comunque evitare generalizzazioni poiché bisogna ricordare la presenza di altre minoranze religiose che adottano sistemi diversi, così come gli avvenuti cambiamenti degli ultimi anni, sia per i matrimoni combinati non universalmente accettati sia per il ruolo assunto dalla donna in ambito lavorativo, soprattutto nei grandi centri urbani, o nella politica (Indira Gandhi divenne primo ministro già nel 1966, a differenza di molti paesi occidentali); ma non sono certamente da dimenticare anche alcuni aspetti di violenza e oppressione verso l’universo femminile in parte della società indiana, principalmente nelle aree rurali. Malgrado l’India sia ufficialmente una repubblica laica, la religione e la spiritualità rappresentano un elemento fondamentale della quotidianità indiana, riscontrabile in gesti, azioni e pensieri collegati alla costante percezione della presenza divina in diversi ambiti (lavorativi, scolastici, ecc.) che nella nostra società occidentale non trovano spazio. Il materialismo e il consumismo potrebbero trovare considerevoli ostacoli in India, dove la spiritualità, non necessariamente solo di matrice indù, è preponderante.
Esistono però altre sfide per l’eventuale nascita della superpotenza indiana. La prima riguarda la povertà; nonostante la crescita costante del PIL, lo sviluppo tecnologico-scientifico e il valore delle università indiane riconosciuto a livello internazionale, una potenza è effettivamente tale se la sua popolazione interna riesce ad avere un minimo sostentamento materiale, prevenendo aiuti economici dall’estero. La seconda sfida riguarda le problematiche di carattere politico interno (rivolte naxalite, autonomismo del nord-est, estremismo religioso, frammentazione statale, Kashmir, ecc.), le quali vedono attualmente Nuova Delhi vincente, ma che non sono certamente da sottovalutare. La terza questione concerne l’effetiva indipendenza dell’India a livello geopolitico in una fase in cui il paese sta mantenendo una politica sostanzialmente bilanciata tra diversi poteri, al fine di diventare una potenza autonoma garante della stabilità asiatica.
La lettura dunque di “La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?” è fondamentale per considerare delle chiavi di lettura diverse che descrivono l’attuale crescita del paese asiatico. Vi sono diverse sfide, il futuro dell’India non è sicuramente roseo come può apparire dai soli dati economici, ma esistono tutte le potenzialità affinché le diverse prove possano essere superate; in questo modo l’India potrà effettivamente diventare una superpotenza, ma potenzialmente anche un modello alternativo al sistema globale uniformante.

(di Francesco Brunello Zanitti)

 

 

Francesco Brunello Zanitti, laureato in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’IsaG (Istituto di alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011).

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail
Viewing all 73 articles
Browse latest View live