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Channel: Sviluppo pacifico – Pagina 136 – eurasia-rivista.org
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La triplice intesa eurasiatica: toccate l’Iran e sentirete la Russia e la Cina

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Nonostante le aree di differenza e la rivalità tra Mosca e Teheran, i legami russo-iraniani si rafforzano. Sia la Russia che l’Iran hanno molto in comune. Sono entrambi grandi esportatori di energia, hanno interessi profondamente radicati nel Caucaso meridionale, si oppongono allo scudo missilistico della NATO e desidera tenere alla larga gli Stati Uniti e l’Unione europea dal controllo dei corridoi energetici nel bacino del Mar Caspio. Mosca e Teheran condividono anche molti alleati, dall’Armenia, Tagikistan e Bielorussia a Siria e Venezuela. Ma sopra ogni cosa, entrambe le repubbliche sono anche i due principali obiettivi geo-strategici di Washington.

La triplice intesa eurasiatica e il valore dell’Iran per la Russia e la Cina

Con l’inclusione dei cinesi, la Federazione Russa e l’Iran sono ampiamente considerati alleati e partner. Insieme la Federazione della Russia, la Repubblica Popolare cinese e la Repubblica islamica dell’Iran formano una barriera contro gli Stati Uniti. I tre lo formano questo una triplice alleanza, il nucleo di una coalizione eurasiatica che resiste all’invasione di Washington dell’Eurasia e alla ricerca degli USA all’egemonia globale. I cinesi affrontano soprattutto l’invasione degli Stati Uniti nell’est asiatico e nel Pacifico, gli iraniani affrontano soprattutto l’invasione degli Stati Uniti nell’Asia sud-occidentale, e i russi l’invasione degli Stati Uniti dell’Europa orientale. Tutti e tre gli stati devono affrontare l’invasione degli Stati Uniti in Asia centrale e sono diffidenti nei confronti della presenza militare USA e NATO in Afghanistan.

L’Iran può essere caratterizzato come un perno geo-strategico. L’intera equazione geo-politica in Eurasia cambierà in base all’orbita politico dell’Iran. Se l’Iran dovesse allearsi con gli Stati Uniti e diventare ostile a Pechino e Mosca, potrebbe seriamente destabilizzare la Russia e la Cina e devastare entrambe le nazioni. Ciò sarebbe dovuto ai suoi legami etnico-culturali, linguistici, economici, religiosi e geo-politici dal Caucaso all’Asia centrale.
L’Iran potrebbe anche diventare il più grande canale per l’influenza e l’espansione degli Stati Uniti nel Caucaso e in Asia centrale, perché l’Iran è la porta verso il ventre molle meridionale della Russia (o “estero vicino”) nel Caucaso e nell’Asia centrale. In tale scenario, la Russia come corridoio energetico verrebbe effettivamente sconvolta e sfidata, mentre Washington sbloccherebbe il potenziale iraniano come corridoio energetico primario per il Mar Caspio e sostenitore delle pipeline iraniane. Parte del successo della Russia come via di transito dell’energia è dovuta agli sforzi statunitensi d’indebolire l’Iran, impedendo il transito dell’energia attraverso il territorio iraniano.

Se l’Iran cambiasse campo, anche l’economia e la sicurezza nazionale cinesi sarebbe tenute in ostaggio per due motivi. La sicurezza energetica cinese sarebbe minacciata direttamente per via del fatto che le riserve energetiche iraniane non sarebbero più sicure e sarebbero soggette agli interessi geopolitici degli USA. Inoltre, l’Asia centrale potrebbe anche ri-orientare la sua orbita se Washington dovesse aprire un canale diretto al mare aperto attraverso l’Iran.

Così, sia la Russia che la Cina vogliono una alleanza strategica con l’Iran, come mezzo per parare l’invasione geo-politica di Washington. La “Fortezza Eurasia” sarebbe vulnerabile senza l’Iran. Questo è il motivo per cui né la Russia né la Cina potrebbero mai accettare una guerra contro l’Iran. Se Washington dovesse trasformare l’Iran in un cliente, allora la Russia e la Cina sarebbero in pericolo.

Fraintendere il sostegno di Cina e Russia alle sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU

C’è un grande fraintendimento sul passato sostegno russo e cinese alle sanzioni ONU contro l’Iran. Anche se Pechino e Mosca permisero che le sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite passassero contro il loro alleato iraniano, lo hanno fatto per motivi strategici volti a mantenere l’Iran al di fuori dell’orbita di Washington. In realtà, per gli Stati Uniti sarebbe assai meglio cooptare Teheran come partner satellitare o minore, che correre rischi inutili e azzardati di una vera e propria guerra contro gli iraniani. Il sostegno russo e cinese alle passate sanzioni hanno consentito che una più ampia frattura emergesse tra l’Iran e Washington. A questo proposito, la realpolitik è all’opera. Mentre le tensioni irano-statunitensi aumentano, le relazioni dell’Iran con la Russia e la Cina diventano più strette e l’Iran consolida sempre più il suo campo con Mosca e Pechino.

Russia e Cina non avrebbero mai sostenuto delle sanzioni paralizzanti o qualsiasi forma di embargo economico, che potessero minacciare la sicurezza nazionale iraniana. Questo è il motivo per cui sia la Cina che la Russia hanno rifiutato di essere costrette da Washington a unirsi alle sue nuove sanzioni unilaterali del 2012. I russi hanno anche messo in guardia l’Unione europea dall’essere la pedina di Washington, perché sono autolesionistici nel giocare secondo gli schemi degli Stati Uniti. A questo proposito, la Russia ha commentato i piani impraticabili e praticamente inefficaci dell’UE per un embargo petrolifero contro l’Iran. Teheran ha anche fatto simili ammonimenti e ha respinto l’embargo petrolifero dell’UE come una tattica psicologica che è destinata a fallire.

La cooperazione russo-iraniana nella sicurezza e nel coordinamento strategico

Nell’agosto 2011, il capo del Consiglio supremo di sicurezza nazionale dell’Iran, il segretario generale Saaed (Said) Jalili, e il capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza della Federazione Russa, il segretario Nikolaj Platonovich Patrushev, si incontravano a Teheran per parlare del programma energetico nucleare iraniano e della cooperazione bilaterale. La Russia ha voluto aiutare l’Iran ha respingere le nuove accuse con cui Washington si stava preparando ad attaccare l’Iran. Poco dopo Patrushev e il suo team russo sono giunti a Teheran, il ministro degli esteri iraniano, Ali Akbar Salehi, sarebbe volato a Mosca.

Nel settembre 2011 sia Jalili che Patrushev si sarebbero incontrato di nuovo, ma questa volta in Russia. Jalili dovrebbe andare a Mosca e poi attraversare gli Urali per recarsi nella città russa di Ekaterinburg. L’incontro di Ekaterinburg tra i due ha avuto luogo a margine di un vertice sulla sicurezza internazionale, ed è stato importante, perché è stato annunciato che i vertici degli enti di sicurezza nazionale di Mosca e Teheran si sarebbero d’ora in poi coordinati, organizzando riunioni regolari, e un protocollo è stato firmato da entrambi a sostegno di ciò. A Ekaterinburg, sia Jalili che Patrushev hanno anche tenuto riunioni con la loro controparte cinese, Meng Jianzhu. Il risultato della riunione sarebbe che Jalili e Jianzhu richiederebbero misure analoghe da adottare da parte dei consigli di sicurezza nazionale dell’Iran e della Cina. Cinesi e iraniani avrebbero anche effettuato degli appelli per l’istituzione di un consiglio di sicurezza sovranazionale all’interno del Consiglio della Shanghai Cooperation Organization, per affrontare le minacce comuni a Pechino, Teheran, Mosca e del resto dell’organizzazione eurasiatica.

Sempre nel settembre 2011, Dmitrij Rogozin, l’inviato russo presso la NATO, ha annunciato che avrebbe visitato Teheran nel prossimo futuro per parlare del progetto dello scudo missilistico della NATO, a cui sia il Cremlino che l’Iran si oppongono; e subito compariva un articolo che affermava che la Russia, Iran e Cina stamno progettando la creazione di uno scudo missilistico congiunto. Rogozin, che nell’agosto 2011 aveva avvertito che la Siria e lo Yemen sarebbero stati attaccati per poter avviare il confronto con Teheran, avrebbe risposto agli articoli confutando pubblicamente i piani per la creazione di un programma per uno scudo missilistico congiunto sino-russo-iraniano.

Il mese seguente, nell’ottobre del 2011, i ministeri degli affari esteri di Russia e dell’Iran annunciavano che avrebbero ampliato i legami in tutti i campi. Poco dopo, nel novembre 2011, l’Iran e la Russia hanno firmato un accordo di cooperazione e di partnership strategica tra i loro rispettivi più importanti enti di sicurezza riguardanti economia, politica, sicurezza, intelligence e coordinamento. Questo era stato anticipato da un documento su cui russi e iraniani stavano lavorando da tempo. L’accordo è stato firmato a Mosca dal segretario generale del Consiglio supremo di sicurezza dell’Iran, Ali Bagheri (Baqeri), e dal Sottosegretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Russia, Evgenij Lukjanov.
Nel novembre 2011, il capo del Comitato per gli affari internazionali della Duma russa, Konstantin Kosachev, aveva anche annunciato che la Russia deve fare tutto il possibile per impedire un attacco al vicino Iran. Alla fine di novembre 2011 è stato anche annunciato, ancora una volta, che Dmitrij Rogozin avrebbe sicuramente visitato sia Teheran che Pechino nel 2012. E’ stato rivelato che Rogozin e un team di funzionari russi sarebbero andati in Iran e in Cina per delle discussioni strategiche sulle strategie collettive contro le minacce comuni.

La Sicurezza Nazionale della Russia e quella dell’Iran sono legate

Il 12 gennaio 2012, Nikolaj Patrushev ha detto ad Interfax che temeva che una grande guerra stesse per esplodere e che Tel Aviv stesse spingendo gli Stati Uniti ad attaccare l’Iran. Ha respinto le pretese che l’Iran stia fabbricando clandestinamente delle armi nucleari e ha detto che per anni il mondo aveva sempre sentito dire ad nauseam che l’Iran avrebbe avuto la bomba atomica la settimana prossima. I suoi commenti sarebbero stati seguiti da un terribile avvertimento da Dmitrij Rogozin.

Il 13 gennaio 2012, Rogozin, che il Cremlino annunciava sarebbe diventato viceprimo ministro russo, ha dichiarato che qualsiasi tentativo di intervento militare contro l’Iran sarebbe una minaccia alla sicurezza nazionale della Russia. In altre parole, un attacco a Teheran è un attacco a Mosca. Nel 2007, Vladimir Putin aveva sostanzialmente detto la stessa cosa, quando era a Teheran per un vertice sul Mar Caspio, provocando allarme presso George W. Bush Jr., avvertendo che la Terza Guerra Mondiale avrebbe potuto scoppiare per l’Iran. L’affermazione di Rogozin è semplicemente una dichiarazione di ciò che è stata la posizione della Russia per tutto questo tempo: se l’Iran dovesse cadere, la Russia sarebbe in pericolo.
L’Iran è un obiettivo dell’ostilità degli Stati Uniti, non solo per le sue vaste riserve di energia e risorse naturali, ma a causa di importanti considerazioni geo-strategiche che lo rendono un trampolino di lancio strategico contro la Russia e la Cina. Le strade per Mosca e Pechino passano per Teheran, così come la strada per Teheran passa per Damasco, Baghdad e Beirut. Né gli USA vogliono controllare il petrolio e il gas iraniani per mere ragioni economiche o di consumo. Washington vuole mettere la museruola alla Cina attraverso il controllo della sicurezza energetica cinese e vuole che le esportazioni energetiche iraniane siano scambiate in dollari USA, per assicurare l’uso continuo del dollaro nelle transazioni internazionali.

Inoltre, l’Iran ha stipulato accordi con partner commerciali come la Cina e l’India, in cui le transazioni commerciali non avranno luogo con gli euro o i dollari statunitensi. Nel gennaio 2012, sia russi che gli iraniani hanno sostituito il dollaro con le loro monete nazionali, rispettivamente il rublo russo e il rial iraniano, nei loro scambi bilaterali. Questo è un duro colpo economico e finanziario negli Stati Uniti.

La Siria è al centro delle preoccupazioni sulla sicurezza nazionale dell’Iran e della Russia

Russia, Cina e Iran supportano fermamente la Siria. L’assedio diplomatico ed economico contro la Siria è legato alla posta geo-politica in gioco per il controllo dell’Eurasia. L’instabilità in Siria è legata all’obiettivo di combattere l’Iran e, infine, di trasformarlo in un partner degli Stati Uniti contro Russia e Cina.
Il cancellato o ritardato dispiegamento di migliaia di truppe statunitensi in Israele per Austere Challenge 2012, era volto a far aumentare la pressione contro la Siria. Sulla base di frammenti di un rapporto di Voce della Russia, i media russi hanno riferito erroneamente che Austere Challenge 2012 si sarebbe tenuta nel Golfo Persico, venendo erroneamente ripresa dagli organi di informazione di altre parti del mondo. Ciò ha contribuito ha mettere in evidenza il collegamento iraniano a spese di quelli siriano e libanese. Il dispiegamento delle truppe statunitensi era rivolto principalmente contro la Siria, per isolare e contrastare l’Iran. Speculativamente, la cancellazione o il ritardo delle esercitazioni missilistiche israelo-statunitensi comprendevano probabilmente attacchi con missili e razzi non solo dall’Iran, ma anche da Siria, Libano e Territori palestinesi.

A parte i suoi porti navali in Siria, la Russia non vuole vedere la Siria utilizzata per re-indirizzare i coordinatori energetici del bacino del Caspio e del bacino del Mediterraneo. Se la Siria dovesse cadere, tali rotte verrebbero sincronizzati in modo da riflettere la nuova realtà geo-politica. A spese dell’Iran, l’energia dal Golfo Persico potrebbe anche essere dirottata verso il Mediterraneo attraverso Libano e Siria, nel Levante.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte: Strategic Culture Foundation.

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Intervista dell’accademico Pierre Piccinin a “Hurriyet” sulla situazione in Siria

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L’accademico francese Pierre Piccinin ritiene che la vera immagine di ciò che sta accadendo in Siria non trova riflesso nei media arabi e nelle agenzie di stampa internazionali, che dipingono un quadro diverso dalla realtà e trasmettono un’immagine inesatta. Lo studioso, infatti, sostiene di non aver mai visto riportato nei media quanto lui stesso ha potuto vedere con i propri occhi a Homs, Hama e Damasco, dove gruppi armati fronteggiano le autorità governative. Nè si parla della debolezza dell’opposizione e delle sue divisioni e conflitti, così come delle reali dimensioni assunte dalle manifestazioni per le strade.

Nelle sue dichiarazioni al quotidiano turco “Hurriyet”, rilasciate dopo i suoi due viaggi in Siria, lo studioso francese ha messo in guardia dal ruolo sospetto giocato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, che manipola le fonti di informazione e fuorvia l’opinione pubblica, soprattutto in Europa, riportando notizie false ed esagerate e distorcendole o modificandone il contenuto, per trasmettere un’immagine falsa e fuorviante, costantemente tesa ad accusare le autorità governative e fornire un’immagine immacolata dell’opposizione.

Piccinin ha confermato di avere constatato in prima persona il modo in cui le autorità si stanno comportando con i manifestanti, in cui non ha riscontrato nessuna brutalità o repressione sanguinosa, come invece sostiene l’opposizione, vedendo piuttosto tentativi di disperdere le manifestazioni con l’uso di gas lacrimogeni e mai con le armi, salvo in casi particolari e rari. Ha piuttoso constatato come le forze governative si attengano in modo rigoroso all’ordine di non usare le armi per evitare ferimenti, per quanto possibile.
L’accademico francese ha concluso dicendo che ciò che ha letto, nel giro di diversi mesi, sulla stampa occidentale riguardo quanto accade in Siria, non era veritiero. Il paese non sta vivendo una tragedia o una catastrofe e la leadership siriana non è così debole da abdicare al proprio mandato, come sostengono i media.

*Fonte: Ambasciata di Siria (Roma).

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Con i Serbi: incontro con Yves Bataille

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Yves Bataille è una attivista impegnato da decenni nella lotta per la liberazione dell’Europa contro l’occupante atlantista. Ora è sul fronte di Kosovska Mitrovica, dove i Serbi del Kosovo resistono alle truppe di occupazione della NATO.

1) Come è nato il “Movimento delle barricate”?

Yves Bataille – Il movimento nasce a fine luglio, dopo la distruzione del posto di blocco di Jarinje sul confine tra Serbia e Kosovo. È la seconda volta è stato presa d’assalto e incendiata tale postazione. La prima volta fu nel febbraio 2008, dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza della provincia occupata. Questa volta i fantocci albanesi installati dalla NATO hanno inviato la loro “forza speciale Rosa”, creata dagli statunitensi per controllare quello che chiamano confine. In risposta, i serbi hanno eretto barricate e vietato le pattuglie di EULEX (1), la struttura di tutela statunitense-occidentale della colonia. Contrariamente a quanto implica il suo acronimo, EULEX è una macchina statunitense.

2) Qual è la natura di questo movimento? E’ sostenuto nel resto della Serbia?

YB – Non è un’azione marginale. Se l’operazione ha un massiccio sostegno nel nord del Kosovo, ha anche un ampio consenso nel resto della Serbia. A Belgrado il potere filoccidentale di Boris Tadic ha prima cercato di controllare le informazioni e poi, appena le barricate sono state erette, ha imposto un oscuramento totale sull’azione ed ha arrestato diverse persone. I media liberi, soprattutto via Internet, cercavano di spezzare la censura. Le decine di barricate del Nord hanno questo significato: voi ci bloccate, noi vi blocchiamo. Noi non vogliamo dipendere dalle autorità criminali di Pristina. Ci sono diversi tipi di barricate. Le grandi barricate erette nei punti caldi, come quelle delle due postazioni di frontiera, Jarinje e Brnjak, e quello sul “Ponte Austerlitz” sul fiume Ibar, quella di Dudin Krs sulla strada per Pristina, e alcuni altri sono grandi cumuli di blocchi di cemento e di ghiaia o di tronchi di legno, che impediscono la circolazione. Vecchi camion, autobus e macchine per il movimento terra, in genere vengono aggiunti al dispositivo. Le altre barricate sono dei posti di blocco che filtrano il traffico. Le barricate impediscono ad EULEX di muoversi, in modo che le postazioni di frontiera devono essere rifornite da elicotteri. Il traffico in uscita dalla frontiera serba passa attraverso i “percorsi alternativi” dei sentieri di montagna attrezzati, che sono problematici per i camion quando il tempo è cattivo. Ma funziona. Le barricate non si limitano alle barricate. Sono integrate da una sistema di guardia e vigilanza costante, giorno e notte, con una rotazione dei volontari e un sistema di allarme in grado di mobilitare migliaia di volontari nei punti caldi in pochi minuti, se l’allarme viene dato. Nelle chiese i sacerdoti sono incaricati di far suonare le campane. Caratteristica, se la NATO (la “KFOR”) (2) smantella una barricata, una nuova barricata viene eretta velocemente vicino e delle bandiere vengono piantate su di essa. Così attaccare le barricate è inutile. Solidi striscioni idrorepellenti con slogan semplici e leggibili come “Fuori la Nato!”, “Stop KFOR! Stop Eulex!”, “Risoluzione 1244”, o “Referendum”, tutti con i colori della Serbia sono piantati nei dintorni. Il movimento si basa sul metodo della difesa con l’azione civile, la Dac, con strumenti come le tende, che permettono di riposare, riscaldarsi e se necessario curarsi. Una eesistenza con l’azione civile, che non è dissimile dalle teorie della “guerra civile” dello statunitense Gene Sharp, il padre delle “rivoluzioni colorate”, ma che il movimento usa contro i suoi amici. Tutte i professionisti sono mobilitati, in primo luogo medici e vigili del fuoco. Il Movimento delle Barricate non è fine a se stesso. Al suo settimo mese sfocerà in una forte iniziativa politica che irrita la cosiddetta comunità internazionale e i suoi cloni di Belgrado, si terrà il 14 febbraio con un referendum: “Sei per l’istituzione della Repubblica del Kosovo nel nord del Kosovo e Metohija?”. Il Nord troverà la sua via alla posizione del Pridniestrovie (“Transnistria”) a est della Moldova, con un territorio, una bandiera, un inno, una moneta, istituzioni e un’amministrazione. Non ci sarà un esercito, ma forse l’embrione dell’esercito popolare è nel Movimento delle Barricate … In ogni caso, rappresenta la resistenza.

3) Qual è la posizione del potere a Belgrado?

YB – Il potere di Tadic non riconosce l’indipendenza del Kosovo, perché sa che se lo facesse verrebbe spazzato via nelle prossime elezioni, che si terranno quest’anno. Il governo è sotto una duplice pressione, degli Stati Uniti e dei loro seguaci, e quello dell’opinione pubblica serba. Quindi temporeggia. E “negozia” a Bruxelles con i trafficanti di organi albanesi. Prodotto da mani straniere e da combinazioni parlamentari, il governo Tadic ha ottenuto una maggioranza risicata con l’allineamento dei socialisti comprati e corrotti dell’SPS, il partito fondato da Slobodan Milosevic. I tutori statunitensi-occidentali non volevano un governo socialista nazionale con i Radicali. Hanno lavorato affinché i socialisti fossero “premiati” (soldi e ministeri) e per distruggere il Partito Radicale. Hanno indotto una scissione di “destra” al suo interno e creando il Partito Progressista (SNS) del tandem Nikolic – Vucic, sulla falsariga di Alleanza Nazionale in Italia.

4) Qual è lo stato attuale della corrente nazionale in Serbia?

YB – Il Movimento nazionale serbo ha le proprie caratteristiche, ma di recente subisce l’influenza benefica di idee esterne, in particolare dalla Russia e dai settori nazionali rivoluzionari d’Italia e di Francia. L’evoluzione è notevole; fino ai bombardamenti della NATO nel 1999, il movimento nazionalista era dominato dal culto del passato, l’eroica resistenza ai Turchi e agli Austro-tedeschi, i cetnici di Draza Mihailovic, il rifugio nell’Ortodossia. Ma i settori patriottici della vecchia sinistra e dei nazionalisti illuminati alla fine hanno riflettuto sulla geopolitica, rivelando una nuova prospettiva. Così, il Movimento nazionale serbo si è reso conto che il movimento dei Paesi Non Allineati del periodo di Tito non era privo di interesse. E i socialisti hanno (ri)scoperto il nazionalismo. Le guerre di aggressione contro Iraq, Libia e Siria hanno provocato una ondata di solidarietà che si è collegata ad esso. La Libia di Gheddafi ha mobilitato un numero di militanti maggiore che altrove. Lo si può vedere sulle pareti affrescate di Kosovska Mitrovica, alla gloria della Jamahirya.
Penso che dovremmo rendere omaggio a un uomo che era una sorta di precursore, intendo Dragos Kalajic. Dragos ha introdotto in Serbia, negli anni ’90, una nuova dottrina dell’essenza nazionale europea, in un momento in cui il nazionalismo era limitato alla rievocazione delle battaglie del passato e al sostegno a Milosevic. Un sostegno forzato e costretto, perché l’attacco USA-occidentale rendeva obbligatorio difenderlo. Ma il regime statico di Slobodan Milosevic non aveva nessuna visione del mondo, né un qualsiasi progetto politico. Allo stesso tempo, un combattente della Milizia delle Aquile Bianche, Dragoslav Bokan, svolse un ruolo importante nel combinare arte e politica, nazionalismo e bolscevismo in riviste sperimentali. Un ex consigliere di Milosevic, Smilja Abramov, da parte sua ha svolto un lavoro essenziale di documentazione su circoli globalisti e opachi come Bilderberg, Trilateral, Opus Dei, producendo libri. Un Istituto di Studi Geopolitici è stato fondato nell’anno della guerra, ma è stato sabotato dopo i bombardamenti (1999). Il fondatore del gruppo di studio marxista rivoluzionario Praxis (ai tempi di Tito), Mihailo Markovic, con il quale ho avuto per molti anni interessanti conversazioni, era passato, grazie alla crisi (crollo della Jugoslavia, embargo, guerre separatiste dell’Occidente) verso una interessante sintesi del socialismo e del nazionalismo. Mihailo ha svolto un ruolo importante nell’articolare discussioni e argomentazioni.
D’altra parte dei giornali come “Ogledalo” (ora scomparso) e “Geopolitika” di Slobodan Eric, siti informatici d’informazione o di gruppi militanti come Srpska Politika, Apisgroup, Vidovdan, Dveri, 1389, Nasi-1389, Obraz, Nova Srpska Politika Misao, Pokret za Srbiju, ecc. hanno svolto un ruolo innegabile nella diffusione di argomenti innovativi. Si noti anche, adesso, l’importanza delle reti sociali come Facebook per diffondere le idee. Posso aggiungere che nei miei frequenti interventi politico-mediatici dal 1993 ad oggi, ho introdotto nel Movimento nazionale serbo l’approccio geopolitico e soreliano dei fatti. Il russo Aleksandr Dugin è venuto a Belgrado, dove i suoi principali libri sono stato tradotti. Ha tenuto conferenze, ha incontrato tutti. Gli scambi con russi, francesi e italiani, soprattutto quelli del Coordinamento Progetto Eurasia, si sono sviluppati con reciproco vantaggio. Questo lavoro politico opera a monte, cosicché la continuità della crisi (un paese senza frontiere, un popolo che si vede costantemente accusato e attaccato) spiega la forza del pensiero nazionale e la nascita dei blog che rivendicano la prospettiva eurasiatista. Temi e prospettive eurasiatiste sono ora ampiamente discusse. L’Eurasia è vista come un progetto fondamentalmente antioccidentale e non-allineato, che collega la Serbia alla Russia e ad un’altra Europa.
Il Movimento nazionale serbo ha un vantaggio su quelli d’Italia e soprattutto della Francia: è sostenuto da molti intellettuali. Un settore in cui gli statunitensi hanno fallito, qui, è il fronte culturale. Questo non significa che i fastidi USA-occidentali non vengano trasmessi. Usano i media audiovisivi “liberi e democratici” nelle mani delle società capitalistiche anglosassoni e tedesche. Ma fuori di questo paravento artificiale, c’è nelle élite reali e nei popoli un riflesso del rifiuto della sottocultura occidentale. Così la coscienza verticale, la “memoria più lunga” e la proiezione nel futuro si armonizzano. La poesia e i canti popolari e folclorici vivi sono armi di distruzione di massa che l’imperialismo statunitense-occidentale non può bombardare. L’USAID (ambasciata USA), NED (3) e la Fondazione Soros hanno speso parecchio denaro per corrompere il settore culturale, come avevano corrotto il settore politico (politicante) e finanziario, ma i loro rappresentanti hanno finalmente ammesso la sconfitta, in privato.
Va aggiunto che, se i nazionalisti sono rappresentati in parlamento dal Partito Radicale serbo (SRS), indebolito da una scissione della “destra nazionale”, il cuore del movimento è extraparlamentare. Lo si ritrova in una varietà effervescente di associazioni e gruppi. Il Movimento Barricate del Kosovo, per quanto lo concerne, è un movimento di base e autonomo, guidato da uomini e donne del popolo, al di fuori e al di sopra dei partiti. Legato alla “resistenza senza dirigenti”, non è limitato a piccole cellule non collegate, ma si articola sul campo dei gruppi autogestiti e di solidarietà. Nella situazione di disagio in cui si trova, il popolo ha preso in mano il proprio destino. Coloro che nei partiti rifiutano l’irredentismo albanese, la NATO e l’UE, l’appoggiano, ma non ne sono il motore.

5) Ci sono tra la popolazione albanese delle correnti eurasiatiste favorevoli alla restaurazione della Jugoslavia?

YB – Non lo so. La posizione di coloro che potrebbero essere presentati come “nazionalisti albanesi” è insostenibile e inaccettabile: i “nazionalisti” sono ora i soli al mondo, oltre agli israeliani, ad applaudire gli statunitensi, a sventolare le bandiere yankee. La loro identità (etnica, piuttosto che religiosa) li separa dagli Slavi dell’ex Jugoslavia. Come ieri i banditi di Lucky Luciano in Sicilia, essi sono utilizzati come cavallo di Troia dall’invasore, sono immersi in una società criminale dove l’unica industria è quella della prostituzione e della droga; hanno eretto una copia in plastica della Statua della Libertà di New York, alle porte di una Pristina ripulita dai Serbi, hanno dato i nomi delle loro strade a Clinton, Albright e Clark. A titolo di aiuto per la ricostruzione, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e le monarchie petrolifere arabe hanno versato milioni di euro e dollari in parte stornati dalla mafia. L’Arabia Saudita ha riversato un fiume di denaro per creare moschee conformi all’eterodossia wahhabita. In Bosnia ci sono gruppi islamici, ma sono una minoranza.
Ne approfitto anche fare una osservazione. Gli Albanesi sono meno di quanto affermino: dal 1999, 250.000 Serbi se ne sono andati o sono stati espulsi. Un piccolo numero è riuscito a tornare. Vi sono oggi 170.000 Serbi. I due milioni di albanesi dichiarati nel 1999 per giustificare l’attacco della NATO, sono una bugia, in quanto il censimento albanese ha identificato 1.700.000 abitanti nell’aprile 2011 (il nord serbo ha rifiutato il censimento). Sappiamo che dal 1999 una parte della popolazione dell’Albania si è riversata nella provincia per avere sovvenzioni e contributi dalla “comunità internazionale”, aggiungendosi a quelli che già avevano fatto tale passo a nord, durante la colonizzazione precedente, sapendo anche che ben pochi albanesi del Kosovo sono emigrati in Occidente per ragioni di passaporto e visto, si deve concludere che le cifre erano false. Questa gigantesca menzogna, largamente ripresa dalla stampa occidentale, ha facilitato la nuova pulizia etnica a danno dei Serbi e delle minoranze etniche non albanesi. Quindi ricostruire la Jugoslavia con gli emuli di questi albanesi forieri di invasioni e occupazioni, non è all’ordine del giorno.
Le cose potranno sistemarsi un giorno con le altre nazionalità, ma per il gruppo albanese in quanto tale, etnocentrico, gregario e “americanolatra” non vedo come. Lo sguardo degli Shqipetar (4) è rivolto agli Stati Uniti, non all’Eurasia. Gli statunitensi hanno fatto loro credere che avrebbero diritto ad una Grande Albania a scapito di Serbi, Montenegrini, Macedoni e Greci – a spese di tutti i vicini dell’Albania – ed essi ne approfittano, perché tutto è loro permesso.

6) Cosa succede nelle altre enclavi serbe in Kosovo?

YB – Il Nord non è un enclave. Si appoggia sulla Serbia. Le enclavi serbe sono isole e isolotti a sud del fiume Ibar che divide la città di Kosovska Mitrovica. L’entità principale, quella di Strpce, 10.000 abitanti, si trova sulle pendici della montagna Sar Planina, che confina con la Macedonia. Strpce è formata prevalentemente da una dozzina di villaggi serbi che sono sopravvissuti ai bombardamenti del 1999 e alle pulizie etniche del 1999 e 2004. Nelle vicinanze, ma fuori, c’è l’enclave di Velika Hoca, un grazioso borgo medievale conservato, con 14 chiese ortodosse e una specialità che risale al Medioevo, la produzione di vino. Il paese è circondato da vigneti. Nel Kosovo centro-orientale, a pochi chilometri da Pristina, c’è anche Gracanica, centro dell’ortodossia serba, un enclave grande ma porosa, con circa 30.000 abitanti. Le altre enclavi sono sparse. Sono dei villaggi completamente isolati come Gorazhdevac, 1000 abitanti a 6 km da Pec, pezzi di enclavi, ghetti, quartieri come la Collina di Orahovac, dove la maggior parte se ne è andata nel 2004, e rimanendo in condizioni di estrema precarietà che 400 serbi. Poi un serbo mi ha mostrato la strada a 40 metri, e mi ha detto: “vedete questo angolo, mio fratello è andato lì due anni fa e non è mai tornato.”

Grazie e coraggio, compagno …

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte: http://corsicapatrianostra.over-blog.com/article-avec-les-serbes-rencontre-avec-yves-bataille-97160403.html

Note:

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L’eredità di Kim Jong-Il: intervista con il professor Han S. Park

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Dopo la morte della guida nordcoreana Kim Jon Il, la direttrice esecutiva del KPI Christine Ahn ha intrattenuto un colloquio telefonico con Han S. Park, professore di Affari Internazionali e direttore del Centro Studio delle questioni globali (Globis) presso l’Università della Georgia. Nato in Cina (Manciuria) da genitori coreani immigrati, il dottor Park ha ricevuto la sua formazione in Cina, Corea e Stati Uniti, con lauree specialistiche in Scienze Politiche presso la Seoul National University (BA), l’American University (MA) e l’Università del Minnesota (Ph.D.)

Professor Park, può cominciare col riassumere in breve l’esperienza da Lei acquisita in seguito a diversi viaggi nella Corea del Nord?

Sono nato in Cina, durante la guerra civile cinese e la lotta per l’indipendenza. La mia famiglia si trasferì a sud, in quella che oggi è la Corea del Sud, attraverso Pyongyang, quando avevo otto anni. Abbiamo vissuto a Pyongyang circa un anno, prima della spartizione del paese. La mia famiglia ne aveva abbastanza delle scene raccapriccianti della guerra civile cinese e ha cercato di evitarla, anche se, quando siamo tornati in Corea, ci siamo trovati nel bel mezzo della guerra di Corea, ancora più selvaggia a causa delle aggressioni di massa dall’aviazione, che non era presente durante la guerra di Cina. Ho finito la mia formazione universitaria in Scienze Politiche alla Seoul National University e sono andato negli Stati Uniti nel 1965 per continuarla.

Poiché mi ero formato come filosofo politico, sono stato incuriosito dall’ideologia Juché della Corea del Nord. Nel 1980, per studiare l’argomento di mio interesse, ho scritto a molte persone, le quali mi hanno consentito di effettuare un primo viaggio nella Corea del Nord, nel 1981. Da allora ho studiato l’evoluzione di queste idee. Dopo tutto questo tempo ho una conoscenza abbastanza completa dell’ideologia e del contesto sociale e politico in cui essa è nata ed è operante.

Ho visitato la Corea del Nord per la seconda volta nel 1990, quasi dieci anni dopo. Da allora mi ci reco annualmente, anche quattro volte all’anno. Ho visto il paese nel corso del tempo, esaminandone la cultura e la lingua. Credo di conoscere la Corea del Nord piuttosto bene, e come studioso, sono stato in grado di trarre delle conclusioni in ordine ai fatti che la riguardano.

L’obiettivo della mia vita è aiutare le persone a convivere pacificamente. Dal momento che la Corea è il mio paese di origine e la mia patria, rivolgo una grande attenzione alla Corea. Nel corso degli anni sono stato testimone della politica statunitense nei confronti della Corea, anche nel periodo in cui fummo molto vicini allo scontro militare. Nel 1994 sono stato direttamente coinvolto nella visita di Jimmy Carter per disinnescare le tensioni crescenti (con gli Stati Uniti) e l’anno successivo l’ho nuovamente aiutato a visitare la Corea del Nord. Credo che attraverso la pace sia possibile migliorare la comprensione reciproca. La divergenza di opinioni è una cosa molto benefica nella società umana. Essere in grado di accogliere la diversità è fondamentale per la pace. Se si dispone di uniformità non si ha bisogno di pace. L’obiettivo comune delle Coree e degli Stati Uniti dovrebbe consistere nello sviluppo di relazioni pacifiche, piuttosto che in un’alleanza fondata su un paradigma di sicurezza, la quale si fonda a sua volta su una cultura della paura reciproca. Al contrario, un paradigma di pace è un accordo tra differenze. Maggiore è la differenza, maggiore è il potenziale per la pace. Ci sono grandi differenze tra Nord e Sud Corea, ma vanno utilizziate per il processo di integrazione. Il grave errore è non essere in grado di comunicare. E’ molto importante per gli Stati Uniti e la Corea del Sud capire la Corea del Nord e viceversa, motivo per cui ho dedicato tanto tempo per l’organizzazione di delegazioni di alto livello per lo scambio di opinioni.

Lei è stato in Corea del Nord negli ultimi 30 anni. Cosa ci può dire dell’eredità di Kim Il Sung e Kim Jong Il?

Quando si guardano le tre generazioni di dirigenti, si deve guardare tanto la situazione interna quanto il contesto regionale e globale. La Corea del Nord è un paese piccolo, sicché essa ha dovuto interagire a fondo con le forze esterne a causa di una sua mancanza di risorse. In realtà, il destino del popolo coreano nel suo complesso e dei suoi regimi, nel nord e nel sud, sta raggiungendo un livello positivo. La Corea del Nord deve essere sensibile all’ambiente esterno, che è in gran parte ostile al suo Stato sovrano.

Kim Il-Sung era un eroe nazionale molto stimato. Ho sviluppato un interesse precoce per lui, in parte perché mio padre è nato lo stesso anno, nel 1912. Entrambi vivevano nel nordest della Cina. Kim Il-Sung disponeva di una grande quantità di basi nel nordest della Cina, da dove condusse la guerriglia contro il Giappone. Anche se non erano amici, avevano molti amici in comune, che ho incontrato e intervistato. Dopo aver ascoltato le loro storie, ho concluso che il giovane Kim Il-Sung era davvero un uomo straordinario. Nella Corea del Sud molti dicono che Kim Il-Sung è una falsificazione e che divenne un eroe solo quando fu formalmente eletto al governo nord-coreano. Naturalmente, ci sono state molte lotte di potere, ma la maggior parte degli avversari di Kim Il-Sung sono stati eliminati dopo la fine della Guerra di Corea.

Kim Il-Sung godeva di un enorme rispetto da parte del popolo della Corea del Nord. Si è mosso con abilità tra i sovietici e i cinesi, prima di muoversi tra gli Stati Uniti e il blocco globale comunista. Era molto abile a mantenere la sovranità della Corea del Nord e non si è mai sottomesso a Stalin o a Mao Tse Tung, che aveva anche perso un figlio nella guerra di Corea. Kim Il-Sung non era un capo di Stato ordinario per la Corea del Nord. Naturalmente, all’interno di un sistema politico, i suoi luogotenenti hanno voluto rappresentare, a volte con descrizioni comiche, le imprese che hanno portato Kim Il-Sung a conseguire l’indipendenza dal Giappone. Lo hanno fatto per rappresentare ulteriormente le qualità di superuomo di Kim Il-Sung, ma ciò è accaduto anche in altri sistemi politici, come nella Corea del Sud con Rhee Syngman o negli Stati Uniti con George Washington.
Il governo di Kim Il-Sung è coinciso in gran parte con l’ordine internazionale della Guerra Fredda. Dovette navigare fra le tensioni delle superpotenze all’interno del blocco comunista, dove riuscì a muoversi abilmente per mantenere la sovranità della Corea del Nord e la fiducia in sé, che lo spinse a sviluppare l’ideologia Juché. Kim Il-Sun fu un governatore autocratico, centralizzatore ed autoritario. La gente lo seguiva perché era particolarmente abile in molte cose, dalle tecniche agricole alla politica estera. Il mondo era molto più semplice, nel senso che c’erano comunismo e democrazia, e le sfide interne non erano molto complicate. Non c’era disaccordo all’interno dei circoli di potere sul che fare e sul come fare. Aveva molto intelletto e abbastanza idee per gestire il sistema politico nel modo in cui voleva.

La morte di Kim Il-Sung, nel 1994, coincise con la scomparsa dell’epoca della Guerra Fredda, dell’Unione Sovietica e del sistema comunista. Non abbiamo più avuto un sistema bipolare, ma un sistema dominato dagli Stati Uniti come unica superpotenza. Di conseguenza Kim Jong-Il ha dovuto affrontare il dominio americano e, purtroppo per lui, gli Stati Uniti avevano un’alleanza tripartita con Giappone e Corea del Sud. Tutti e tre i paesi erano economicamente e militarmente superiori alla Corea del Nord, per cui Kim Jong-Il ha dovuto fare in modo che il suo paese non potesse essere minacciato con la forza. Questa fu per lui una sfida formidabile. Al fine di mostrare la capacità di autodifesa del suo paese, dovette mostrarne le capacità sotto forma di esperimenti nucleari. Doveva promuovere le armi non solo con mezzi militari, ma col militarismo, sicché introdusse la politica Songun (“prima l’esercito”). Per chiarire, il Songun non prevede di seguire ciecamente i militari; semmai significa fornire all’esercito maggiori poteri per la difesa nazionale e per la costruzione della Patria. A differenza del padre, Kim Jong-Il dovette navigare in una difficile situazione interna, anche a causa della degradata situazione economica (creata dalle sanzioni degli Stati Uniti) e delle successive intemperie del 1990, che causarono la scarsità degli alimenti fondamentali. Furono queste le circostanze in cui Kim Jong-Il dovette governare.

Kim Il-Sung è stato indicato come la “Grande Guida”, il più alto livello possibile di guida. Quando mi chiedono chi sia la vera guida della Corea del Nord, io dico Kim Il-Sung, perché le sue direttive sono ancora molto attuali. Kim Jong-Il è stato chiamato “Diletta Guida”, un titolo importante per garantire la sua funzione di capo, che è stata generalmente accettata dal suo popolo, e per assicurare il processo del controllo militare. Quando Kim Jong-Il assunse il potere, cercò di definire la sua “eredità personale”. E’ stato in grado di estendere l’ideologia Juché per includere il Songun, ed è stato amato dal suo popolo, come testimonia il dolore per la sua morte. Oggi il giovane Kim Jong-Un è stato molto abilmente nominato “Grande Successore”. Questa è un’etichetta affascinante, perché un successore non ha bisogno di creare cose nuove, ma piuttosto cerca di dare continuità all’eredita del padre e del nonno. Tra Kim Il-Sung e Kim Jong-Il ci sono direttive, principi e concezioni filosofiche già stabilite. La terza generazione è quella che deve attuare queste linee politiche.

Nel frattempo, nel contesto internazionale, non solo siamo fuori dalla guerra fredda, ma siamo anche in un’epoca che sta mettendo in discussione il dominio globale degli Stati Uniti. E’ un’epoca globale completamente diversa. Durante il secondo periodo della dirigenza di Kim Jong-Il, il processo decisionale era in gran parte collettivo. Anche se gli altri decisori non sono conosciuti, il centro del potere era il Partito del Lavoro. Kim Jong-Il è diventato sinonimo di centro del partito, quello che prende le decisioni. Nella Corea del Nord ci sono dodici o tredici persone che prendono le decisioni e tutti questi individui sono al loro posto. Il ruolo di Kim Jong-Un consiste nello sviluppare questa politica, cosicché le cose rimarranno come prima, non solo a Pyongyang, ma anche nella politica estera.

Professor Park, per quanto riguarda l’eredità di Kim Jong-Il, molti cosiddetti esperti di Corea dicono che sotto la sua guida i militari hanno guadagnato più potere del Partito del Lavoro. Cosa ne pensa di questa analisi?

In qualsiasi sistema, si ha una tensione militari-civili. Tuttavia nella Corea del Nord il civile non è separato dal militare. Sono d’accordo che la Commissione Militare ha ottenuto molto potere ed autorità e Kim Jong-Il è stato presidente della Commissione Militare. Questa però non si contrappone al partito politico, il Partito del Lavoro, ma deve essere considerata in stretta relazione col partito stesso. Non c’è distinzione tra capi militari e membri del partito, ci sono un sacco di mescolamenti e sovrapposizioni. Molte persone hanno ipotizzato che ci possa essere una giunta militare dopo Kim Jong-Il. Un colpo di stato militare è impensabile per molte ragioni, come come la prospettiva di una rivolta contro la leadership come nel mondo arabo.

Professor Park, la mia preoccupazione è che l’amministrazione Obama cada nella stessa trappola di Clinton dopo la morte di Kim Il-Sung, quando tutti avevano anticipato la fine della Corea del Nord, che aveva portato gli Stati Uniti a venir meno all’accordo per un cambio di regime.

Francamente, a guidare la politica estera degli Stati Uniti nei confronti della Corea del Nord sono gli interessi del complesso militare industriale. Vogliono che la Corea del Nord sia militarmente più forte di quanto non è. La Corea del Nord non è una minaccia per gli Stati Uniti, ma questi ultimi ci hanno costruito una leggenda. Perpetuare il mito secondo cui la Corea sarebbe il male ed avrebbe intenzione di colpire gli Stati Uniti è proprio quello che serve per giustificare il costoso sistema di difesa missilistica. L’unica cosa che può annullare questo è l’opinione politica, che è la vera sfida fra coloro che prendono le decisioni ed hanno i loro fini, i quali consistono nel tutelare ad ogni costo i loro affari economici e militari.

Professor Park, in qualità di esperto di ideologia Juché, come spiega il fatto che la Corea del Nord dipenda dagli aiuti esteri e tuttavia conservi un’immagine di autosufficienza?

E’ una lettura sbagliata dell’autosufficienza Juché, che non è isolazionismo e non significa certamente escludere elementi stranieri… Il principio è, politicamente parlando, la fiducia in se stessi. Ciò significa che la Corea del Nord è sovrana ed assume ogni iniziativa nel corso della sua azione politica. Sono seduti al posto del conducente.

L’autosufficienza non significa che non importino cibo, perché non hanno abbastanza terra per coltivare cibo per sfamare tutti. E’ più che altro il principio di non voler essere controllati da altri. La Corea del Nord e la Corea del Sud hanno intrapreso una guerra di legittimità, tanto che la Corea del Nord ha voluto stabilire il proprio corso in modo univoco e diverso da quello del Sud. Come sappiamo, la Corea del Sud è tutt’altro che sovrana, soprattutto militarmente e nelle decisioni di politica estera.

Come risponde alle accuse secondo cui Kim Jong-Il sarebbe stato un dittatore che ha affamato il suo popolo?

Come politologo ed analista, dico sempre che bisogna capire che Kim Jong-Il è stato una guida politica, il cui ruolo è stato innanzitutto quello di mantenere il sistema politico del suo Paese. Se quest’ultimo è esposto a minacce, il governo farà di tutto per la sicurezza, anche a scapito di battute d’arresto nell’economia. Per i Nordcoreani la loro sicurezza nazionale non è in vendita. Gli incentivi economici e gli aiuti non potranno mai comprare la sicurezza nazionale. E questo è il caso di tutti i paesi, inclusi gli Stati Uniti. Ci sono molteplici cause che hanno causato la carestia durante il governo di Kim Jong-Il. In nome dell’autosufficienza l’espansione dell’agricoltura e l’aumento della produttività ha causato negli anni ’70 e ’80 un forte disboscamento, che ha causato la rimozione di terreno e ricorrenti inondazioni.

Quindi come possiamo fare per modificare la politica dell’amministrazione Obama?

Sia il presidente sudcoreano Lee Myung Bak sia il presidente Obama hanno sviluppato un odio personale per Kim Jong-Il; ma, poiché il nuovo capo di Stato è giovane ed è un volto nuovo, è il momento opportuno per l’apertura di un nuovo capitolo. Ciò che è spiacevole è che il Dipartimento di Stato ha detto che avrebbe aspettato fino a dopo il funerale per inviare un messaggio per il nuovo anno, cosa piuttosto stupida. Deve prendere decisioni, soprattutto perché è chiaro che vi sarà continuità, nonostante il cambio simbolico nella guida del Paese.

Se Lei potesse dire qualcosa nell’orecchio di Obama, cosa gli consiglierebbe di fare?

In politica estera, nel secondo mandato il presidente è più interessato a soluzioni di lungo termine, quindi mi aspetto di più dal secondo mandato di Obama, compresi i negoziati diretti con la Corea del Nord. Spero che Washington non sia più ostaggio di Seul, dove le prossime elezioni potrebbero portare a qualcosa di nuovo. Sono molto fiducioso su questo, perché la base conservatrice è stata disintegrata.

(Trad. di Marco Bagozzi)

Fonte: http://kpolicy.org/documents/interviews-opeds/111228christineahnhanspark.html

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“Scontro di civiltà” o incontro Europa-Islam?

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Riportiamo qui di seguito l’intervista rilasciata dal direttore di “Eurasia”, Claudio Mutti, a Fiorenza Licitra e pubblicata su “La voce del ribelle” il 17 gennaio 2012.

D. – L’analogia tra i “Fedeli d’Amore” e il Tasawwuf, assieme alla poesia persiana – indicata da Italo Pizzi come da Luigi Valli – è un caso esemplare non solo della corrispondenza, ma anche dell’enorme influenza che l’Islam ha avuto sulla nostra civiltà?

R. – Mi fa piacere che Lei citi, oltre a Luigi Valli, anche il mio concittadino Italo Pizzi, al quale ho voluto dedicare un capitolo di un mio libro recente, Esploratori del Continente. In una memoria presentata alla R. Accademia delle Scienze di Torino, il Pizzi illustrò, centovent’anni fa, Le somiglianze e le relazioni tra la poesia persiana e la nostra nel Medio Evo; oltre a ciò, egli attribuì un’origine persiana al romanzo di Tristano e Isotta, rilevando le analogie tra la pazzia di Tristano e quella del giovane Qays nelle opere di Nezâmî e di Giâmî. Che l’Islam abbia esercitato un’influenza enorme sulla civiltà europea, e non solo nell’ambito della poesia, è un dato di fatto, del quale dovrebbero prendere atto coloro i quali biascicano di continuo la formuletta ideologica delle “radici giudaico-cristiane” dell’Europa. Le più antiche radici dell’Europa sono greche; e l’Islam, oltre a fornire un suo proprio apporto allo sviluppo della nostra civiltà, ha anche riconsegnato all’Europa buona parte dell’eredità greca.

D. – Le Crociate, seppur tra lotte e spargimenti di sangue, stabilirono strettissimi rapporti tra l’Europa e il mondo arabo-persiano. Eppure proiettiamo sulle guerre dell’antichità l’ombra della guerra totale contemporanea.

R. – Le Crociate, che senza alcun dubbio produssero l’effetto da Lei ricordato, furono anche die höhere Seeräuberei: “pirateria di grado superiore”, per riprendere l’espressione di Nietzsche, che ad esse contrapponeva l’esemplare politica di “pace e amicizia con l’Islam” perseguita da Federico II di Svevia. Perciò, se è inevitabile che nel mondo musulmano gli odierni pirati occidentali vengano visti come “i nuovi crociati”, è anche vero che lo scontro odierno non presenta certamente i risvolti positivi che si possono individuare nelle Crociate vere e proprie. A quell’epoca infatti, come pare abbia detto un pontefice del secolo scorso, si trattò in fin dei conti di “una lite in famiglia”, ossia di uno scontro fra due civiltà animate entrambe da ideali religiosi. Oggi invece, assistiamo ad un evento alquanto diverso: al tentativo della barbarie americana di estendere e di consolidare la propria egemonia su aree che erano rimaste relativamente immuni.

D. – Nell’Occidente secolarizzato è rimasta tuttavia la concezione unilineare del Cristianesimo. Quali sono le conseguenze?

R. – Se interroghiamo l’etimologia, l’Occidente è la terra del tramonto, della caduta, sicché la secolarizzazione si inscrive fatalmente nel suo destino. Infatti la storia e il progresso, in cui l’uomo occidentale e secolarizzato è inevitabilmente immerso, sono esattamente, per citare Mircea Eliade, “una caduta che implica l’abbandono definitivo del paradiso degli archetipi e della ripetizione”. Effettivamente il cristianesimo ha uno stretto rapporto con tutto ciò, in quanto si tratta della religione dell’uomo storico, che ha scoperto la libertà individuale ed ha sostituito il tempo continuo a quello ciclico.

D. – La definizione di Islam moderato e laico è assurda e paradossale come lo è il tentativo di modernizzare l’eterno?

R. – L’espressione “Islam moderato” costituisce una tautologia, perché lo spirito islamico è fondamentalmente improntato, come diceva giustamente il Bausani, all’ideale della mesotes, ossia, per dirla alla latina, del modus in rebus. La tautologia in questione, bovinamente accettata dal pubblico semicolto della televisione e delle gazzette, è stata coniata dai fautori dello “scontro di civiltà”, i quali hanno intrapreso – e con un certo successo – il tentativo di arruolare truppe ausiliarie musulmane nello schieramento occidentale. Traducendo dalla neolingua occidentalista, risulta che “Islam moderato” è quello dei musulmani made in USA, compresi i tagliagole che in Libia hanno collaborato con la NATO e i terroristi che stanno tentando di sovvertire l’ordinamento politico siriano per conto dell’Occidente. Se l’”Islam moderato” è una tautologia, l’”Islam laico” è un ossimoro, poiché, mentre il laicismo propugna la totale autonomia dello Stato nei confronti della religione, l’Islam sostiene esattamente il contrario. A questo proposito, è interessante osservare che i “laici”, nel loro desiderio di trovare il laicismo anche dove non c’è, indicano esempi di “Islam laico” in paesi musulmani come la Libia, dove spesso era Gheddafi in persona a guidare la preghiera collettiva, o come la Siria, la cui Costituzione stabilisce che “fonte della legge è la teologia islamica”!

D. – Sfatiamo un altro mito che vuole l’Islam feroce e parossistico? L’Islam è, invece, la religione dell’equilibrio.

R. – In un celebre versetto coranico (II, 43) Dio si rivolge ai Credenti con queste parole: “Wa kadhâlika ja’alna^kum ummatan wasatan”. Lo si potrebbe tradurre in questo modo: “Così abbiamo fatto di voi una comunità dell’aureo mezzo”. Infatti l’aggettivo wasat, che significa “mediano”, indica il punto egualmente lontano dai due estremi, sicché i Credenti sono designati come la comunità del giusto mezzo e dell’equilibrio. Per realizzare questo ideale di giustizia, nella misura in cui ciò è realisticamente possibile, l’Islam si propone di guidare i bisogni, le inclinazioni e i desideri degli uomini mantenendoli entro i limiti della legge divina. In tal modo, sulla solida base di questo equilibrio, l’uomo può costruire la sua fortezza spirituale, da cui contemplare l’Assoluto.

D. – L’espansione dell’Islam in Europa dagli anni Trenta ad oggi è dovuta al fatto che questa sia la forma della Tradizione primordiale adatta ai tempi ultimi?

R. – In effetti la rivelazione coranica si presenta come ultima e definitiva nell’attuale ciclo di umanità e come essenzialmente riassuntiva delle rivelazioni precedenti; ciò conferisce all’Islam un grado di universalità che lo rende accessibile a uomini di diversa origine geografica, etnica e culturale. D’altronde, se la civiltà islamica è stata storicamente l’intermediaria naturale tra l’Oriente e l’Europa, ciò si spiega non solo con la presenza dell’Islam in un’area geografica contigua all’Europa ed anche parzialmente interna all’Europa stessa (Spagna, Sicilia, Balcani), ma pure col fatto che tra le forme spirituali non cristiane quella islamica è la meno lontana, per le sue caratteristiche, dalla mentalità tradizionale europea. Indicare gli anni Trenta come momento iniziale dell’espansione dell’Islam in Europa mi induce a pensare che si attribuisca una certa importanza all’influenza esercitata dall’opera di Guénon e ai conseguenti ricollegamenti di gruppi di Europei ai centri spirituali del mondo musulmano. Questo fenomeno ha avuto certamente il suo peso, ma non bisogna dimenticare il contributo che altre cause ed altri fattori hanno dato alla diffusione dell’Islam (in primo luogo, gli “spostamenti etnici” previsti proprio da Guénon).

D. – Frithjof Schuon scrive che il mondo è infelice perché gli uomini vivono al di sotto delle loro possibilità. Possibilità, quindi, spirituali, non materiali…

R. – Visto che mi cita Schuon, mi consentirà di rispondere con una citazione dello stesso autore: “Poiché viviamo sotto tutti gli aspetti in un tale guscio (Schuon allude al “guscio” della relatività esistenziale), abbiamo bisogno, per sapere chi siamo e dove andiamo, di quello strappo cosmico che è la Rivelazione”.

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Antimperialismo e identità nazionale nella Corea socialista

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Qui di seguito il resoconto dell’evento che si è svolto lo scorso sabato ed ha avuto luogo nella città di Milano. Una conferenza dei “seminari di Eurasia” dedicata all’identità nazionale della Corea socialista, nel quale si è colta l’occasione per presentare il nuovo libro di Alessandro Lattanzio, pubblicato dalle “Edizioni all’insegna del Veltro” sulla dottrina del Songun.

 

Grande successo di pubblico per il Seminario di Eurasia dedicato alla Repubblica Popolare Democratica di Corea svoltosi sabato 21 gennaio a Milano: all’evento, organizzato in collaborazione con l’ambasciata della RPD di Corea e la sezione italiana della Korean Friendship Association, purtroppo non hanno potuto partecipare Sua Eccellenza Han Tae Song, ambasciatore della RPD di Corea, né Ro Kum Su, segretario dell’ambasciata della RPD di Corea, bloccati all’ultimo momento a Roma da improvvisi impegni istituzionali.

Claudio Mutti, direttore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, ha introdotto il convegno ricordando come la Corea sia un paese interessantissimo per gli studiosi di geopolitica, trovandosi in mezzo alle pressioni di tre potenze del calibro della Russia, della Cina e del Giappone, sicché è stato uno dei fronti caldi della Guerra fredda, tanto da restare diviso, come la Germania ed il Vietnam, in due porzioni, l’una controllata dagli statunitensi, l’altra legata a Mosca e Pechino. Ancor oggi, però, Washington tiene sotto tiro Pyongyang, tanto che nel 2002 il Presidente Bush giunse a definirla “l’avamposto della tirannide” ed i media calibrano i propri servizi su questa falsariga, contribuendo ad una demonizzazione costante agli occhi dell’opinione pubblica.

È stata perciò opportuna e preziosa l’ampia relazione tenuta da Flavio Pettinari, responsabile della KFA Italia: con il supporto di alcuni video e facendo riferimento alla propria esperienza diretta della quotidianità coreana, Pettinari ha saputo fornire al pubblico una valida testimonianza alternativa.

Innanzitutto è stata presentata la filosofia Juché che è alla base del sistema politico coreano (questo termine sostanzialmente significa “uomo artefice della natura”), il quale ha vissuto, dopo la guerra 1950-’53, il suo periodo più difficile negli anni Novanta del secolo scorso, in cui venne a mancare la figura carismatica di Kim Il Sung, artefice dell’indipendenza della penisola dall’occupazione giapponese e leader della lotta contro gli statunitensi ed i loro alleati, gran parte dei Paesi comunisti con cui vi erano ottime relazioni politiche e commerciali crollarono e si scatenarono disastri naturali che causarono una grave carestia. Pyongyang, dopo essersi sollevata dai terrificanti bombardamenti americani, era riuscita a conseguire l’autosufficienza alimentare e per sollevarsi da questa nuova crisi predispose un vasto progetto di recupero di terreni all’agricoltura: in un territorio prevalentemente montuoso, riuscì l’impresa di creare nuove coltivazioni di riso su cui fare affidamento per il sostentamento della popolazione. Al termine di questa “ardua marcia” (con riferimento alla gravosa ritirata compiuta dai guerriglieri coreani verso la Manciuria incalzati dalle armate giapponesi), Kim Jong Il vide consacrato il suo ruolo come nuovo leader della nazione e poté avviare il suo programma di governo che portò sì all’acquisizione di armamenti nucleari in funzione di deterrenza contro aggressioni da parte di potenze straniere o di tentativi di destabilizzazione, ma anche si cercò di sviluppare un modello economico originale, legato alla cultura e alla specificità coreana e senza influenze straniere, partendo dal quale si potesse anche rilanciare il dialogo con Seul auspicando la riunificazione della penisola.

Torndando ai tempi della lotta per liberarsi dall’occupazione coloniale nipponica, è stato evidenziato il ruolo di Kim Il Sung, postosi a capo di un gruppo di giovani rimasti delusi dall’esperienza del neonato Partito Comunista Coreano, il quale cercava di conformarsi al modello sovietico senza curare l’aderenza al contesto locale. Cercando di configurare una via coreana al socialismo, nacque innanzitutto la simbiosi fra partito ed esercito, poiché si predispose che nei centri decisionali militari vi fosse sempre una cellula del Partito del Lavoro, nato dalla fusione tra il disciolto Partito Comunista ed un Partito Democratico che aveva aderito non in ossequio alla dialettica capitale-lavoro, bensì condividendo l’analisi leninista riguardo la nazione e la lotta al colonialismo. Riconquistata l’indipendenza e affrontata l’aggressione atlantista, la RPD di Corea dovette destreggiarsi tra i suoi due ingombranti vicini ed alleati, la Cina (un figlio di Mao era morto combattendo tra i volontari accorsi a supporto dell’esercito di Pyongyang) e l’URSS, della quale non venne apprezzato il nuovo corso accentratore impresso da Krusciov. Nel 1955 venne perciò finalmente esposta la teoria Juché, condannando contestualmente il dogmatismo ed il formalismo in voga al Cremlino ed affidandosi altresì ad una dottrina originale e coerente con la realtà coreana: pur ripudiando il riformismo kruscioviano, si badò bene di non cadere nel frazionismo. Considerando, infatti, prioritario l’impegno per l’unità del campo socialista ed anti-imperialista e giungendo pertanto a proporre una sorta di multipolarismo nel campo del Cominform, in modo da garantire le peculiarità anche dei membri più piccoli, il punto di riferimento poteva semmai essere lo Stalin che a partire dagli anni Trenta riscoprì la storia e le glorie patrie della Russia. Lo Juché si esplica in quattro settori: ideologico (ogni Paese ha la sua rivoluzione e sa come portarla avanti, l’importante è poi la cooperazione internazionale), politico (opposizione a qualsiasi ingerenza straniera), economico (conquistare l’autosufficienza) e militare (difendere la propria sovranità).

Riguardo quest’ultimo punto, importantissimo è il Songun (che significa “esercito al centro”), cioè il riconoscimento del ruolo guida delle forze armate nel conseguimento della vittoria rivoluzionaria e nella difesa delle sue conquiste: durante la crisi degli anni Novanta i soldati si adoperarono per convertire terreni in risaie ed assunsero anche altri compiti che ne garantirono il ruolo guida al posto della classe lavoratrice (protezione civile, gestione delle foreste, realizzazione di dighe e centrali idroelettriche), ma senza degenerare in uno stato di polizia. Nel sistema coreano inoltre sussistono diversi gruppi politici (Partito del Lavoro, Partito Socialdemocratico e Partito Chondu, di matrice religiosa), è consentita la libertà di culto ed esiste una suddivisione dei poteri tra la Commissione Nazionale di Difesa (ove il comandante in capo delle forze armate è la figura carismatica), il Presidente del Praesidium dell’Assemblea Popolare Suprema ed il Presidente del Consiglio. Con riferimento alle illazioni della stampa occidentale in occasione della morte di Kim Jong Il, Pettinari ha, infine, ricordato come il “caro leader” abbia guidato il Paese nei difficili anni Novanta ed abbia conquistato vasta e sincera popolarità vistando il Paese in lungo e in largo per tutto il periodo in cui fu al vertice del processo decisionale coreano: oggi la successione di Kim Jong Un è giunta dopo una gavetta nelle fila dell’esercito e s’inserisce nella programmazione finalizzata ad evitare i problemi successori che si manifestarono ad esempio a Mosca alla morte di Stalin.

E di Songun ha parlato pure Marco Bagozzi, collaboratore di Eurasia, presentando il nuovo libro di Alessandro Lattanzio “Songun. Antimperialismo e identità nazionale nella Corea Socialista” (Edizioni All’insegna del Veltro), di cui ha scritto la prefazione. Lattanzio, redattore di Eurasia ed esperto di questioni militari e strategiche che ha affrontato anche nelle sue precedenti opere, stavolta ha scritto un corposo volume ricco di informazioni militari, diplomatiche e strategiche, sottoponendo ad un attento vaglio critico le spesso faziose fonti occidentali ed ha illustrato come il concetto di Songun s’incastri alla perfezione nelle filosofia Juché. Basti pensare a quali sono le tre priorità del Songun: la difesa della sovranità nazionale, il rafforzamento dell’esercito e la centralità dello Stato. La questione nazionale, in effetti, ha sempre avuto un ruolo importante nell’analisi marxista, in particolare nelle riflessioni e nella prassi di Mao e di Ho Chi Minh, ma sarà proprio Kim Il Sung a fornirne la teorizzazione più completa. Geloso pertanto della propria indipendenza, quello che è stato sovente chiamato, con un retaggio colonialista, “il Paese eremita”, come attore internazionale gode oggi di ottimi rapporti con la Cina, apprezzabili con la Russia e solidi con l’Iran fin dai tempi della guerra con l’Iraq negli anni Ottanta del secolo scorso ed il suo popolo è compatto nel resistere ai tentativi di destabilizzazione che provengono dagli Stati Uniti d’America.

Bagozzi ha colto l’occasione per presentare anche la sua opera Con lo spirito Chollima. 55 anni di calcio della Repubblica Popolare Democratica di Corea: Chollima è un cavallo della mitologia coreana capace di compiere balzi prodigiosi ed è stato il simbolo dell’impegno profuso nella gravosa ricostruzione del dopoguerra. Coltivando una passione nata in concomitanza con la partecipazione della nazionale coreana ai Campionati Mondiali di Calcio del 2010 in Sudafrica, l’autore ha non solo fornito preziosi dati statistici per gli appassionati del calcio, ma ha anche smontato notizie prive di fondamento fatte circolare dalla stampa occidentale in merito alle sorti dei calciatori coreani reduci dalla poco confortante prestazione sudafricana ed altri luoghi comuni che, partendo dalla dimensione sportiva, puntavano a contribuire all’opera di demonizzazione mediatica da anni indirizzata contro Pyongyang.

*Lorenzo Salimbeni è redattore di Eurasia

Della conferenza è disponibile anche una documentazione fotografica e audiovisiva al seguente indirizzo – premi qui

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Conferenza: “Il ruolo dell’Ungheria nel contesto continentale”

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Sabato 4 Febbraio, alle ore 15.30, a Verona, vi invitiamo all’incontro pubblico:

“Il ruolo dell’Ungheria nel contesto continentale”,

che si svolgerà nella Sala Conferenze “Erminio Lucchi”, sita all’interno della Palazzina “Alberto Masprone” di Piazzale Olimpia 3.

Partecipano:

S.E. István Manno, Console generale d’Ungheria

Prof. Antonello F. Biagini, Prorettore per la Cooperazione e i Rapporti Internazionali, Sapienza, Università di Roma

Dott. Claudio Mutti, direttore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”

Dott. Francesco Vartolo, consigliere di circoscrizione del Comune di Verona

L’incontro rientra fra i seminari di Eurasia 2011-2012.
L’ingresso è libero e gratuito.

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Aggiornamenti sulla situazione in Siria – 27 gennaio 2012

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Gruppi terroristici armati hanno preso di mira ieri diversi quartieri della città di Homs con colpi di mortaio RPG, causando la morte di quattro persone, fra cui due donne, e circa venti feriti, fra cui dei bambini. Un altro gruppo terroristico ha invece attaccato con colpi di mortaio il campo palestinese della città.
Nella giornata di ieri è stato inoltre ucciso il colonnello Louai Mohamad Al Nuqari, contro cui i terroristi hanno aperto il fuoco con una mitragliatrice di fronte a casa sua in un quartiere di Homs.
Sempre ad Homs, è stato rapito ieri mattina l’insegnante Shaoukat Al Aly, del liceo industriale, mentre si recava al lavoro.

In provincia di Daraa è invece morto ieri mattina un tenente degli artificieri che cercava di disinnescare un ordigno piazzato dai terroristi in prossimità di un ponte.

Nella zona industriale di Aleppo, un altro gruppo terroristico armato ha ucciso l’industriale Haitham Khankan, sparadogli addosso mentre entrava nella sua fabbrica.

Le autorità competenti hanno sequestrato armi e munizioni, alcune delle quali di fabbricazione israeliana, a Duma e Harasta, in provincia di Damaasco, e ad Hama. Fra le armi sequestrate in provincia di Damasco sono state trovate mitragliatrici e fucili di fabbricazione israeliana, bombe di attacco e di difesa, fucili automatici, diversi tipi di ordigni, esplosivi, strumenti per il rilascio di scariche elettriche, dispositivi di comunicazione, binocoli notturni, zaini e uniformi militari, targhe false e materiale medico, oltre ad una divisa simile a quelle che indossano gli osservatori della Lega Araba.
Ad Hama invece, dove le autorità competenti si sono scontrate con un gruppo di terroristi armati, catturandone diversi e uccidendone altri, sono stati sequestrati ordigni esplosivi, strumenti per il rilascio di scariche elettriche, materiale esplosivo, lanciarazzi RPG, fucili automatici russi e due fucili di precisione, oltre a sistemi di comunicazione wireless, dispositivi per l’esplosione di ordigni a distanza, munizioni e buste di materiale medico.

Sia la Mezzaluna Rossa siriana che il Comitato Iinternazionale della Croce Rossa e la Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, hanno condannato l’assassinio del dottor Abdul Razaq Jbeiro, presidente della sezione della Mezzaluna Rossa di Idleb, avvenuto il 25 gennaio per mano di un gruppo terroristico armato a nord di Khan Cheikhoun.
In un comunicato diffuso dalle tre organizzazioni si legge che la notizia della morte del dottor Jbeiro è stata un grande shock per tutti, e le tre organizzazioni hanno affermato che Jbeiro stava rientrando nella sede di lavoro, dopo aver concluso delle riunioni tenutesi a Damasco, con un’auto che esponeva chiaramente il logo della Mezzaluna Rossa siriana.
Le organizzazioni hanno esortato chiunque partecipi ad azioni di violenza a facilitare il passaggio dei volontari della Mezzaluna Rossa, dei suoi dipendenti e dei suoi veicoli, senza esporli a pericoli mentre stanno svolgendo il loro lavoro di aiuto umanitario, che ha lo scopo di assistere chi ha bisogno, senza pregiudizi e in modo imparziale.

Fonte: Ambasciata di Siria a Roma.

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Intervista al direttore

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Il direttore di “Eurasia” ha rilasciato al quotidiano telematico “Stato e Potenza” l’intervista che riproduciamo qui sotto.

Andrea FaisSalve, Professor Mutti. Quella che entro breve sarà disponibile nelle librerie e nei cataloghi della rete, è la prima uscita di EURASIA da quando Lei ne ha assunto il ruolo di direttore editoriale. Come intende proseguire il lavoro di chi La ha preceduta e cosa può dirci riguardo al nuovo numero della rivista?

Claudio Mutti – Quello che mi si presenta è un compito particolarmente impegnativo. Il direttore che mi ha preceduto, il dottor Tiberio Graziani, ha portato EURASIA ad un livello qualitativo di prim’ordine, sicché ora si tratta di mantenere questo livello e, se possibile, di migliorarlo ulteriormente. Ciò che mi propongo è di far sì che EURASIA, in conformità con quanto espresso dal sottotitolo – “rivista di studi geopolitici” – continui ad essere un laboratorio di analisi regolato da criteri oggettivi e da metodi d’indagine lato sensu “scientifici”. Ma ciò non significa affatto che la ragion d’essere di questa iniziativa editoriale debba esaurirsi in un ozioso esercizio di analisi ispirato ad un’illusoria neutralità: la scelta stessa di chiamarsi “Eurasia” definisce il punto d’osservazione da cui il direttore e la comunità redazionale considerano ed esaminano gli eventi mondiali, nonché l’obiettivo ideale verso cui si dirigono i loro sforzi teorici. Ritengo che tale impostazione sia rappresentata in modo molto chiaro dal primo numero della serie da me diretta, che, essendo dedicato all’evento della nascita dell’Unione Eurasiatica, non solo si avvale della collaborazione di qualificati osservatori dei fatti politici internazionali, ma propone al lettore anche i contributi di intellettuali e uomini politici di dichiarato indirizzo eurasiatista.

A. FaisLa casa editrice che Lei fondò oltre trent’anni fa sta pubblicando, oltre ad EURASIA, anche diversi saggi di natura scientifica sulle strategie statunitensi e su alcuni di quei “mondi” politicamente e culturalmente quasi sconosciuti in Italia ed in Europa, come l’India, la Cina, l’Iran o la Corea del Nord. Come editore, quale riscontro ha potuto registrare in termini di interesse di mercato per pubblicazioni di questo genere? Il pubblico italiano è interessato alla geopolitica e alla conoscenza delle culture non occidentali?

C. Mutti – L’interesse del pubblico italiano per la geopolitica risale all’ultima fase del periodo fascista, quando Ernesto Massi e Giorgio Roletto fecero conoscere qui da noi tale disciplina attraverso la rivista intitolata “Geopolitica. Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale, coloniale”. Si è dovuto attendere la fine del periodo bipolare, perché la geopolitica venisse riproposta al pubblico italiano, e questo da parte di un gruppo redazionale di orientamento atlantista, che ha scelto di cavalcare la tigre della “riscoperta” di una disciplina a lungo demonizzata. Nell’attuale momento di transizione dalla fase unipolare a quella multipolare, davanti alla prospettiva di una realtà internazionale contrassegnata da un dinamismo epocale, in diversi settori della vita italiana ci si rende conto della necessità dell’approccio geopolitico. Il fatto che una piccola casa editrice come le Edizioni all’insegna del Veltro possa permettersi da oltre sette anni la regolare pubblicazione di una rivista come EURASIA, affiancandole una collana di “Quaderni di geopolitica” e pubblicando i saggi di cui Lei ha fatto cenno, è la dimostrazione che anche in un momento culturalmente infelice come l’attuale esiste in Italia un settore di pubblico interessato alla geopolitica ed alla conoscenza dei paesi protagonisti sulla scena mondiale.

A. Fais Lei è un esimio studioso dei sistemi etno-linguistici uralo-altaici, ed in particolare del gruppo ugrofinnico, che coinvolge anche una parte dell’attuale Eurozona. Gli abitanti delle regioni di Finlandia, Ungheria ed Estonia, infatti, non provengono dal ceppo indoeuropeo come Tedeschi, Francesi o Spagnoli, ma da chiare derivazioni asiatiche. Sul piano etnografico e culturale, ha senso perciò parlare di Unione Europea?

C. Mutti – Cerchiamo di non esagerare: le mie nozioni di uralo-altaistica sono limitate al settore ugrofinnico e in particolare all’ungherese. Che popoli di lingua ugrofinnica quali gli Ungheresi, i Finlandesi e gli Estoni siano europei a pieno titolo è un fatto fuori d’ogni discussione. Anzi, la loro originaria parentela con diverse popolazioni rimaste sul territorio dell’ex URSS potrebbe rappresentare per l’Europa un’ulteriore opportunità per rinsaldare i legami col grande continente eurasiatico di cui essa è parte.

A. FaisL’ingresso recente di Franco Cardini all’interno del Comitato Scientifico della rivista si aggiunge ad una serie di tantissimi altri nomi di alto spessore internazionale. Che tipo di rapporti EURASIA intende coltivare col mondo accademico straniero e quali sono le sue aspirazioni editoriali?

C. Mutti – Fin dalla sua nascita, EURASIA ha dichiarato che il suo obiettivo è quello di promuovere, stimolare e diffondere la ricerca e la scienza geopolitica nell’ambito della comunità scientifica, nonché di sensibilizzare sulle tematiche eurasiatiche il mondo intellettuale, oltre a quello politico, militare, economico e dell’informazione. Pur non rappresentando alcun indirizzo accademico specifico, né privilegiando alcun particolare approccio metodologico nell’indagine degli avvenimenti geopolitici, EURASIA si propone infatti di sottoporre all’attenzione di docenti e ricercatori universitari l’importanza della riscoperta dell’unità culturale del Continente e della necessità che essa debba tradursi in un’effettiva unità geopolitica. L’acquisizione di tale consapevolezza costituisce un fattore innovativo e decisivo per l’avanzamento della scienza geopolitica del XXI secolo, in alternativa alle interessate teorie dello “scontro di civiltà” o del “melting-pot”, che tanto hanno nuociuto sia all’indagine scientifica sia alle applicazioni pratiche. Da parte loro, diversi ambienti universitari hanno trovato nella rivista EURASIA interlocutori disponibili a contribuire con i loro apporti alle attività di studio organizzate nelle sedi accademiche.

Fonte: http://www.statopotenza.eu/2006/a-tu-per-tu-con-claudio-mutti-direttore-della-rivista-eurasia

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Jean Thiriart e l’impero che verrà

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A circa mezzo secolo dalla prima edizione italiana del celebre libro di Jean Thiriart L’Europa: un impero di 400 milioni di uomini, le Edizioni Avatar ne hanno recentemente pubblicata una seconda (traduzione di Giuseppe Spezzaferro), la quale reca una Prefazione di Claudio Mutti che riproduciamo qui di seguito.

 

 
L’ultimo ricordo che ho di Jean Thiriart è una lettera che mi scrisse alcuni mesi prima di morire: mi chiedeva di indicargli una località isolata sugli Appennini, dove potersi accampare un paio di settimane per fare qualche escursione sui monti. Quasi settantenne, era ancora pieno di vitalità: non si lanciava più col paracadute, però navigava con la barca a vela sul Mare del Nord.

Negli anni Sessanta, in qualità di giovanissimo militante della Giovane Europa, l’organizzazione da lui diretta, ebbi modo di vederlo diverse volte. Lo conobbi a Parma, nel 1964, accanto a un monumento che colpì in maniera particolare la sua sensibilità di “eurafricano”: quello di Vittorio Bottego, l’esploratore del corso del Giuba. Poi lo incontrai in occasione di alcune riunioni della Giovane Europa e in un campeggio sulle Alpi. Nel 1967, alla vigilia dell’aggressione sionista contro l’Egitto e la Siria, fui presente a un’affollata conferenza che egli tenne in una sala di Bologna, dove spiegò perché l’Europa doveva schierarsi a fianco del mondo arabo e contro l’entità sionista. Nel 1968, a Ferrara, partecipai a un convegno di dirigenti della Giovane Europa, nel corso del quale Thiriart sviluppò a tutto campo la linea antimperialista: “Qui in Europa, la sola leva antiamericana è e resterà un nazionalismo europeo ‘di sinistra’ (…) Quello che voglio dire è che all’Europa sarà necessario un nazionalismo di carattere popolare (…) Un nazionalcomunismo europeo avrebbe sollevato un’ondata enorme di entusiasmo. (…) Guevara ha detto che sono necessari molti Vietnam; e aveva ragione. Bisogna trasformare la Palestina in un nuovo Vietnam”. Fu l’ultimo suo discorso che ebbi modo di ascoltare.

Jean-François Thiriart era nato a Bruxelles il 22 marzo 1922 da una famiglia di cultura liberale originaria di Liegi. In gioventù militò attivamente nella Jeune Garde Socialiste Unifiée e nell’Union Socialiste Anti-Fasciste. Per un certo periodo collaborò col professor Kessamier, presidente della società filosofica Fichte Bund, una filiazione del movimento nazionalbolscevico amburghese; poi, assieme ad altri elementi dell’estrema sinistra favorevoli ad un’alleanza del Belgio col Reich nazionalsocialista, aderì all’associazione degli Amis du Grand Reich Allemand. Per questa scelta, nel 1943 fu condannato a morte dai collaboratori belgi degli Angloamericani: la radio inglese inserì il suo nome nella lista di proscrizione che venne comunicata ai résistants con le istruzioni per l’uso. Dopo la “Liberazione”, nei suoi confronti fu applicato un articolo del Codice Penale belga opportunamente rielaborato a Londra nel 1942 dalle marionette belghe degli Atlantici. Trascorse alcuni anni in carcere e, quando uscì, il giudice lo privò del diritto di scrivere.

Nel 1960, all’epoca della decolonizzazione del Congo, Thiriart partecipa alla fondazione del Comité d’Action et de Défense des Belges d’Afrique, che di lì a poco diventa il Mouvement d’Action Civique. In veste di rappresentante di questo organismo, il 4 marzo 1962 Thiriart incontra a Venezia gli esponenti di altri gruppi politici europei; ne esce una dichiarazione comune, in cui i presenti si impegnano a dar vita a “un Partito Nazionale Europeo, centrato sull’idea dell’unità europea, che non accetti la satellizzazione dell’Europa occidentale da parte degli USA e non rinunci alla riunificazione dei territori dell’Est, dalla Polonia alla Bulgaria passando per l’Ungheria”. Ma il progetto del Partito europeo abortisce ben presto, a causa delle tendenze piccolo-nazionaliste dei firmatari italiani e tedeschi del Manifesto di Venezia.

La lezione che Thiriart trae da questo fallimento è che il Partito europeo non può nascere da un’alleanza di gruppi e movimenti piccolo-nazionali, ma deve essere fin da principio un’organizzazione unitaria su scala europea. Nasce così, nel gennaio 1963, la Giovane Europa (Jeune Europe), un movimento fortemente strutturato che ben presto si impianta in Belgio, Olanda, Francia, Svizzera, Austria, Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Inghilterra. Il programma della Giovane Europa si trova esposto nel Manifesto alla Nazione Europea, che esordisce così: “Tra il blocco sovietico e il blocco degli USA, il nostro compito è di edificare una grande Patria: l’Europa unita, potente, comunitaria (…) da Brest sino a Bucarest”. La scelta è a favore di un’Europa decisamente unitaria: “Europa federale o Europa delle Patrie sono delle concezioni che nascondono la mancanza di sincerità e la senilità di coloro che le difendono (…) Noi condanniamo i piccoli nazionalismi che mantengono le divisioni tra i cittadini della NAZIONE EUROPEA”. L’Europa deve optare per una neutralità forte e armata e disporre di una forza atomica propria; deve “ritirarsi dal circo dell’ONU” e sostenere l’America Latina, che “lotta per la sua unità e per la sua indipendenza”. Il Manifesto abbozza un’alternativa ai sistemi sociali vigenti nelle due Europe, proclamando la “superiorità del lavoratore sul capitalista” e la “superiorità dell’uomo sul formicaio”: “Noi vogliamo una comunità dinamica con la partecipazione nel lavoro di tutti gli uomini che la compongono”. Alla democrazia parlamentare e alla partitocrazia viene contrapposto una rappresentanza organica: “un Senato politico, il Senato della Nazione Europea basato sulle province europee e composto delle più alte personalità nel campo della scienza, del lavoro, delle arti e delle lettere; una Camera sindacale che rappresenti gli interessi di tutti i produttori dell’Europa liberata dalla tirannia finanziaria e politica straniera”. Il Manifesto conclude così: “Noi rifiutiamo l’Europa teorica. Noi rifiutiamo l’Europa legale. Noi condanniamo l’Europa di Strasburgo per crimine di tradimento. (…) O vi sarà una NAZIONE o non vi sarà indipendenza. A questa Europa legale che rifiutiamo, noi opponiamo l’Europa legittima, l’Europa dei popoli, la nostra Europa. NOI SIAMO LA NAZIONE EUROPEA”.

Accanto a una scuola per la formazione politica dei militanti (che dal 1966 al 1968 pubblica mensilmente “L’Europe Communautaire”), la Giovane Europa cerca di dar vita a un Sindacato Comunitario Europeo e, nel 1967, a un’associazione universitaria, Università Europea, che sarà attiva particolarmente in Italia. Dal 1963 al 1966 viene pubblicato un organo di stampa in lingua francese, “Jeune Europe” (con frequenza prima settimanale, poi quindicinale); tra i giornali in altre lingue va citato l’italiano “Europa Combattente”, che nel medesimo periodo riesce a raggiungere una frequenza mensile. Dal 1966 al 1968 esce “La Nation Européenne”, mentre in Italia “La Nazione Europea” continuerà ad uscire, a cura dell’autore di queste righe, anche nel 1969 (un ultimo numero sarà pubblicato a Napoli nel 1970 da Pino Balzano).

“La Nation Européenne”, mensile di grande formato che in certi numeri raggiunge la cinquantina di pagine, oltre ai redattori militanti annovera collaboratori di un certo rilievo culturale e politico: il politologo Christian Perroux, il saggista algerino Malek Bennabi, il deputato delle Alpi Marittime Francis Palmero, l’ambasciatore siriano Selim el-Yafi, l’ambasciatore iracheno Nather el-Omari, , i dirigenti del FLN algerino Chérif Belkacem, Si Larbi e Djamil Mendimred, il presidente dell’OLP Ahmed Choukeiri, il capo della missione vietcong ad Algeri Tran Hoai Nam, il capo delle Pantere Nere Stokeley Carmichael, , il fondatore dei Centri d’Azione Agraria principe Sforza Ruspali, i letterati Pierre Gripari e Anne-Marie Cabrini. Tra i corrispondenti permanenti, il professor Souad el-Charkawi (al Cairo) e Gilles Munier (ad Algeri).

Sul numero di febbraio del 1969 appare una lunga intervista rilasciata a Jean Thiriart dal generale Peròn, il quale dichiara di leggere regolarmente “La Nation Européenne” e di condividerne totalmente le idee. Dal suo esilio madrileno, l’ex presidente argentino riconosce in Castro e in Guevara i continuatori della lotta per l’indipendenza latinoamericana intrapresa a suo tempo dal movimento giustizialista: “Castro – dice Peròn – è un promotore della liberazione. Egli si è dovuto appoggiare ad un imperialismo perché la vicinanza dell’altro imperialismo minacciava di schiacciarlo. Ma l’obiettivo dei Cubani è la liberazione dei popoli dell’America Latina. Essi non hanno altra intenzione se non quella di costituire una testa di ponte per la liberazione dei paesi continentali. Che Guevara è un simbolo di questa liberazione. Egli è stato grande perché ha servito una grande causa, finché ha finito per incarnarla. È l’uomo di un ideale”.

Per quanto riguarda la liberazione dell’Europa, Thiriart pensa a costituire delle Brigate Rivoluzionarie Europee che intraprendano la lotta armata contro l’occupante statunitense. Già nel 1966 egli ha avuto un colloquio col ministro degli Esteri cinese Chu En-lai, a Bucarest, e gli ha chiesto di appoggiare la costituzione di un apparato politico-militare europeo che combatta contro il nemico comune (1). Nel 1967 l’attenzione di Thiriart si dirige sull’Algeria: “Si può, si deve prendere in considerazione un’azione parallela e auspicare la formazione militare, in Algeria, fin da ora, di una sorta di Reichswehr rivoluzionaria europea. Gli attuali governi di Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra, Germania, Italia sono in diversa misura i satelliti, i valletti di Washington; perciò noi nazionaleuropei, noi rivoluzionari europei, dobbiamo andare a formare in Africa i quadri di una futura forza politico-militare che, dopo aver servito nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, un giorno potrà battersi in Europa per farla finita coi Kollabos di Washington. Delenda est Carthago” (2). Nell’autunno del 1967 Gérard Bordes, direttore de “La Nation Européenne”, si reca in Algeria, dove entra in contatto con la Segreteria Esecutiva del FLN e col Consiglio della Rivoluzione. Nell’aprile del 1968 Bordes ritorna ad Algeri con un Mémorandum à l’intention du gouvernement de la République Algérienne firmato da lui stesso e da Thiriart, nel quale sono contenute le proposte seguenti: “Contributo europeo alla formazione di specialisti in vista della lotta contro Israele; preparazione tecnica della futura azione diretta contro gli Americani in Europa; creazione di un servizio d’informazioni antiamericano e antisionista in vista di un’utilizzazione simultanea nei paesi arabi e in Europa”.

Siccome i contatti con l’Algeria non hanno nessun seguito, Thiriart si rivolge ai paesi arabi del Vicino Oriente. D’altronde, il 3 giugno 1968 un militante di Jeune Europe, Roger Coudroy, è caduto con le armi in pugno sotto il fuoco sionista, mentre con un gruppo di al-Fatah cercava di penetrare nella Palestina occupata.

Nell’autunno del 1968 Thiriart viene invitato dai governi di Bagdad e del Cairo, nonché dal Partito Ba’ath, a recarsi nel Vicino Oriente. In Egitto assiste ai lavori d’apertura del congresso dell’Unione Socialista Araba, il partito egiziano di governo; viene ricevuto da alcuni ministri e ha modo di incontrare lo stesso Presidente Nasser. In Iraq incontra diverse personalità politiche, tra cui alcuni dirigenti dell’OLP, e rilascia interviste a organi di stampa e radiotelevisivi.

Ma lo scopo principale del viaggio di Thiriart consiste nell’instaurare una collaborazione che dia luogo alla creazione delle Brigate Europee, le quali dovrebbero partecipare alla lotta per la liberazione della Palestina e diventare così il nucleo di un’Armata di Liberazione Europea. Davanti al rifiuto del governo iracheno, determinato da pressioni sovietiche, questo scopo fallisce. Scoraggiato da questo fallimento e ormai privo di mezzi economici sufficienti a sostenere una lotta politica di un certo livello, Thiriart decide di ritirarsi dalla politica militante.

Dal 1969 al 1981, Thiriart si dedica esclusivamente all’attività professionale e sindacale nel settore dell’optometria, nel quale ricopre importanti funzioni: è presidente della Société d’Optométrie d’Europe, dell’Union Nationale des Optométristes et Opticiens de Belgique, del Centre d’Études des Sciences Optiques Appliquées ed è consigliere di varie commissioni della CEE. Ciononostante, nel 1975 rilascia una lunga intervista a Michel Schneider per “Les Cahiers du Centre de Documentation Politique Universitaire” di Aix-en-Provence ed assiste Yannick Sauveur nella compilazione di una tesi universitaria intitolata Jean Thiriart et le national-communautarisme européen (Università di Parigi, 1978). Quella di Sauveur è la seconda ricerca universitaria dedicata all’attività politica di Thiriart, poiché sei anni prima era stata presentata all’Università Libera di Bruxelles una tesi di Jean Beelen su Le Mouvement d’Action Civique.

Nel 1981, un attentato di teppisti sionisti contro il suo ufficio di Bruxelles induce Thiriart a riprendere l’attività politica. Riallaccia i contatti con un ex redattore della “Nation Européenne”, lo storico spagnolo Bernardo Gil Mugarza (3), il quale, nel corso di una lunga intervista (centootto domande), gli dà modo di aggiornare e di approfondire il suo pensiero politico. Prende forma in tal modo un libro che Thiriart conta di pubblicare in spagnolo e in tedesco, ma che è rimasto finora inedito.

All’inizio degli anni Ottanta, Thiriart lavora a un libro che non ha mai visto la luce: L’Empire euro-soviétique de Vladivostok à Dublin. Il piano dell’opera prevede quindici capitoli, ciascuno dei quali si articola in numerosi paragrafi. Come appare evidente dal titolo di quest’opera, la posizione di Thiriart nei confronti dell’Unione Sovietica è notevolmente cambiata. Abbandonata la vecchia parola d’ordine “Né Mosca né Washington”, Thiriart assume ora una posizione che potrebbe essere riassunta così: “Con Mosca contro Washington”. Già tredici anni prima, d’altronde, in un articolo intitolato Prague, l’URSS et l’Europe (“La Nation Européenne”, n. 29, novembre 1968), denunciando gli intrighi sionisti nella cosiddetta “primavera di Praga”, Thiriart aveva espresso una certa soddisfazione per l’intervento sovietico e aveva cominciato a delineare una “strategia dell’attenzione” nei confronti dell’URSS. “Un’Europa occidentale NON AMERICANA – aveva scritto – permetterebbe all’Unione Sovietica di svolgere un ruolo quasi antagonista degli USA. Un’Europa occidentale alleata, o un’Europa occidentale AGGREGATA all’URSS sarebbe la fine dell’imperialismo americano (…) Se i Russi vogliono staccare gli Europei dall’America – e a lungo termine essi devono necessariamente lavorare per questo scopo – bisogna che ci offrano, in cambio della SCHIAVITU’ DORATA americana, la possibilità di costruire un’entità politica europea. Se la temono, il modo migliore di scongiurarla consiste nell’integrarvisi”.

A Mosca, Thiriart ci va nell’agosto 1992 assieme a Michel Schneider, direttore della rivista “Nationalisme et République”. A fare gli onori di casa è Aleksandr Dugin, il quale nel marzo dello stesso anno ha accolto Alain de Benoist e Robert Steuckers e in giugno ha intervistato alla TV di Mosca l’autore di queste righe, dopo averlo presentato agli esponenti dell’opposizione “rosso-bruna”. L’attività di Thiriart a Mosca, dove si trovano anche Carlo Terracciano e Marco Battarra, delegati del Fronte Europeo di Liberazione, è intensissima. Tiene conferenze stampa; rilascia interviste; partecipa a una tavola rotonda con Prokhanov, Ligacev, Dugin e Sultanov nella redazione del giornale “Den’”, che pubblicherà sul n. 34 (62) un testo di Thiriart intitolato L’Europa fino a Vladivostok; ha un incontro con Gennadij Zjuganov; si intrattiene con altri esponenti dell’opposizione “rosso-bruna”, tra cui Nikolaj Pavlov e Sergej Baburin; discute con il filosofo e dirigente del Partito della Rinascita Islamica Gejdar Dzemal; partecipa a una manifestazione di studenti arabi per le vie di Mosca.
Il 23 novembre, tre mesi dopo il suo rientro in Belgio, Thiriart è stroncato da una crisi cardiaca.

Apparso nel 1964 in lingua francese, nel giro di due anni Un Empire de 400 millions d’hommes: l’Europe vide la luce in altre sei lingue europee. La traduzione italiana venne eseguita da Massimo Costanzo, (all’epoca redattore di “Europa Combattente”, organo italofono della Giovane Europa), il quale presentò l’opera con queste parole: “Il libro di Jean Thiriart è destinato a suscitare, per la sua profondità e per la sua chiarezza, un forte interesse. Ma da dove deriva questa chiarezza? Da un fatto molto semplice: l’autore ha usato un linguaggio essenzialmente politico, lontano dai fumi dell’ideologia e dalle costruzioni astratte o pseudometafisiche. Dopo una lettura attenta, nel libro si possono anche trovare impostazioni ideologiche, ma queste traspaiono dalle tesi politiche e non il contrario, come fino ad oggi è avvenuto nel campo nazionaleuropeo”. Nonostante le riserve che alcune “impostazioni ideologiche” dell’Autore (eurocentrismo, razionalismo, giacobinismo ecc.) potranno suscitare, il lettore di questa seconda edizione italiana probabilmente concorderà con quanto scriveva Massimo Costanzo quarant’anni or sono; anzi, si renderà conto che questo libro, senza dubbio il più famoso dei testi redatti da Thiriart (4), è un libro preveggente ed attuale, per quanto inevitabilmente risenta della situazione storica in cui venne concepito. Preveggente, perché anticipa il crollo del sistema sovietico, e questo una decina d’anni prima dell’”eurocomunismo”; attuale, perché la descrizione dell’egemonia statunitense in Europa è ancor oggi un dato reale; anzi, l’analisi thiriartiana dell’imperialismo si avvale della lettura di un autore come James Burnham, che già negli anni Sessanta candidava gli USA al dominio mondiale assoluto.

Nella mia biblioteca conservo un esemplare della prima edizione di questo libro (“édité à Bruxelles, par Jean Thiriart, en Mai 1964”). La dedica che l’Autore vi scrisse di suo pugno contiene un’esortazione di cui vorrei si appropriassero i lettori delle nuove generazioni, questa: “Votre jeunesse est belle. Elle a devant elle un Empire à bâtir“. Diversamente da Luttwak e da Toni Negri, Thiriart sapeva bene che l’Impero è l’esatto contrario dell’imperialismo e che gli Stati Uniti non sono Roma, bensì Cartagine.

Claudio Mutti

Note:

(1) Nel 1985 Thiriart rievocò l’episodio nei termini seguenti. “Nella sua fase iniziale, il mio incontro con Chou En-lai non fu che uno scambio di aneddoti e ricordi. Chou En-lai si interessò ai miei studi sulla scrittura cinese ed io al suo soggiorno in Francia che per lui rappresentava un gradevole ricordo giovanile. La conversazione si orientò poi sul tema degli eserciti popolari – tema caro tanto a lui quanto a me. Le cose si guastarono quando progressivamente si arrivò al concreto. Dovetti subire allora un vero e proprio corso di catechismo marxista-leninista. Chou stese poi l’inventario dei vari errori psicologici commessi dall’Unione Sovietica. E la lezione si spostò sulle nozioni di ‘alleanza gerarchica’ e ‘alleanza egualitaria’. Per distendere l’ambiente, affrontai il tema dei disordini che avevo organizzato a Vienna nel 1961, durante l’incontro Krusciov-Kennedy. Ma il tentativo di fargli accettare il concetto della lotta globale quadricontinentale di tutte le forze anti-americane nel mondo, quali che siano i loro orientamenti ideologici, fallì. Attirai a tal scopo la sua attenzione sul fatto che era anche l’opinione del generale Peròn, un amico di lunga data. Si inalberò un po’ quando gli feci notare che in Argentina Peròn – sul piano psicologico – era una forza incommensurabilmente più forte che il comunismo. Io sono un uomo pragmatico. Gli domandai dunque dei mezzi – del denaro per sviluppare la nostra stampa ed un santuario per la nostra organizzazione – per la preparazione e la strutturazione di un apparato politico-militare rivoluzionario europeo. Mi rinviò ai suoi servizi. Il solo risultato fu, alla fine dell’incontro, un eccellente pranzo, consumato in un clima molto disteso. Ricomparvero allora gli ufficiali rumeni, che non avevano assistito agli incontri politici. In seguito, non riuscii ad ottenere nulla dai servizi cinesi, la cui incomprensione dell’Europa era totale sia sul piano psicologico che su quello politico” (Da Jeune Europe alle Brigate Rosse. Antiamericanismo e logica dell’impegno rivoluzionario, Società Editrice Barbarossa, Milano 1992, pp. 24-25).
(2) J. Thiriart, USA: un empire de mercantis, “La Nation Européenne”, 21, ottobre 1967, p. 7.
(3) Autore di España en llamas 1936, Acervo, Barcelona 1968.
(4) Oltre a questo libro, Thiriart pubblicò anche La Grande Nation. 65 thèses sur l’Europe,
Bruxelles 1965 (ed. it. La Grande Nazione. 65 tesi sull’Europa, Milano s. d.; 2° ed. italiana Società Editrice Barbarossa, Milano 1993; ed. tedesca Das Vierte Reich: Europa, Bruxelles 1966). Nel 1967 Thiriart progettò un libro intitolato Libération et unification de l’Europe. L’incarico di redigere gli ottocento paragrafi di questa opera venne assegnato a un collettivo composto di redattori della “Nation Européenne”.
 

 

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“Choque de civilizaciones” o ¿Encuentro Europa-Islam?

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A continuación presentamos la entrevista concedida por el director de “Eurasia”, Claudio Mutti, a Fiorenza Licitra y publicada en “La voce del ribelle” (La voz del rebelde), el 17 de enero de 2012.

P.- ¿La analogía entre los “Fieles de amor” y el Tasawwuf, junto a la poesía persa -señalada por Italo Pizzi como por Luigi Valli- es un caso ejemplar no solo de la correspondencia, sino también de la enorme influencia que el Islam ha tenido sobre nuestra civilización?

R.– Me complace que Usted cite, además de Luigi Valli, también a mi conciudadano Italo Pizzi, al quién he dedicado un capítulo de mi libro reciente: ”Esploratori del Continente” (Exploradores del Continente). En una memoria presentada a la R. Academia de las Ciencias de Turín, Pizzi ilustró, hace ciento veinte años, las semejanzas y relaciones existentes en la Edad Media entre la poesía persa y la nuestra; además de esto, él atribuyó un origen persa a la leyenda de Tristán e Isolda, resaltando las analogías entre la locura de Tristán y aquella del joven Qays en las obras de Nezâmî y Giâmî. Qué el Islam había ejercido una influencia enorme sobre la civilización europea, y no sólo en el ámbito de la poesía, es un dato evidente, del que deberían tomar en cuenta aquellos de los cuales divulgan continuamente la formula ideológica de las “raíces judeo-cristianas” de Europa. Las más antiguas raíces de Europa son griegas; y el Islam, además de contribuir con su propio aporte al desarrollo de nuestra civilización, también ha recuperado para Europa una buena parte de la herencia griega.

P.- Las Cruzadas, incluso entre luchas y derramamientos de sangre, estableció estrechas relaciones entre Europa y el mundo árabe-persa. Sin embargo proyectamos sobre las guerras de la antigüedad la sombra de la guerra total contemporánea.

R.– Las Cruzadas, que sin ninguna duda produjeron el efecto por Usted recordado, también fueron die höhere Seeräuberei: “piratería de grado superior”, para retomar la expresión de Nietzsche, que a ésta contrastó con la ejemplar política de “paz y amistad con el Islam” seguida por Federico II de Suabia. Por tanto, es inevitable que en el mundo musulmán a los modernos piratas occidentales se los vea como “los nuevos cruzados”, también es verdad que el choque actual no presenta ciertamente las implicaciones positivas que se pueden identificar las Cruzadas reales. En aquella época en efecto, como parece que había dicho un pontífice del siglo pasado, se trató en fin de cuentas de “una pelea de familia”, o sea de un choque entre dos civilizaciones animadas por ideales religiosos. Hoy en cambio, asistimos a un acontecimiento bastante diferente: la tentativa de la barbarie americana de extender y consolidar esta misma hegemonía sobre áreas que permanecían relativamente inmunes.

P.- En el occidente secularizado todavía perdura la concepción unilinear del Cristianismo. ¿Cuáles son las consecuencias?

R.– Si acudimos a la etimología, el Occidente es la tierra del ocaso, de la caída, por lo que la secularización se inscribe fatalmente en su destino. En efecto, la historia y el progreso, en los cuales el hombre occidental y secularizado está inmerso inevitablemente, son exactamente, para citar a Mircea Eliade, “una caída que implica el abandono definitivo del paraíso de los arquetipos y la repetición.” Efectivamente, el cristianismo tiene una estrecha relación con todo esto, en cuánto se trata de la religión del hombre histórico, que ha descubierto la libertad individual y ha reemplazado al tiempo cíclico con el continuo.

P.- ¿La definición de Islam moderado y laico es absurda y paradójica, como lo es la tentativa de modernizar lo eterno?

R.– La expresión “Islam moderado” constituye una tautología, porque el espíritu islámico está fundamentalmente marcado, como dijo justamente Bausani, por el ideal de la mesura, o sea, para decirlo en latín, del modus in rebus (Existe una medida o límite para cada cosa). La tautología en cuestión, bovinamente aceptada por el público semiculto moldeado por la televisión y las revistas, ha sido acuñada por los partidarios del “choque de civilizaciones”, los cuales han emprendido -y con cierto éxito- la tentativa de reclutar tropas auxiliares musulmanas en el encuadramiento occidental. Traduciendo en la neolengua occidentalista, resulta que “Islam moderado” es aquel de los musulmanes made in USA, comprendidos los asesinos que en Libia han colaborado con la OTAN y los terroristas que están intentando subvertir el orden político sirio por cuenta del Occidente. Si el ”Islam moderado” es una tautología, el ”Islam laico” es un oxímoron, ya que, mientras el laicismo propugna la total autonomía del Estado respecto a la religión, el Islam sostiene exactamente lo contrario. Debido a este propósito, es interesante observar que los “laicos”, en su deseo de encontrar el laicismo incluso donde no lo hay, se muestran como ejemplos de “Islam laico” a países musulmanes como Libia, donde a menudo fue el mismo Gadafi quien en persona conducía la oración colectiva, o como a Siria, cuya Constitución establece que ¡”la fuente de la ley es la teología islámica”!

P.- ¿Refutamos otro mito como aquél que pretende un Islam feroz y paroxístico? El Islam es, en cambio, la religión del equilibrio.

R.– En un célebre versículo coránico (II, 43), Dios se dirige a los Creyentes con estas palabras: “Wa kadhâlika ja’alna^kum ummatan wasatan.” Se lo podría traducir de esta manera: “Así habíamos hecho de ustedes una comunidad del áureo medio”. En efecto, el adjetivo wasat, que significa “mediano”, indica el punto igualmente lejano de ambos extremos, así que los Creyentes son designados como la comunidad del justo medio y del equilibrio. Para realizar este ideal de justicia, en la medida en que esto es realísticamente posible, el Islam se propone guiar las necesidades, las inclinaciones y los deseos de los hombres manteniéndolos dentro de los límites de la ley divina. En tal modo, sobre la sólida base de este equilibrio, el hombre puede construir su fortaleza espiritual, desde la cual contemplar lo Absoluto.

P.- ¿La expansión del Islam en Europa desde los años Treinta hasta hoy es debido al hecho de que ésta sea la forma de la Tradición primordial adecuada para los últimos tiempos?

R.– Efectivamente, la revelación coránica se presenta como última y definitiva en el actual ciclo de humanidad y como esencialmente recapituladora de las revelaciones anteriores; eso confiere al Islam un grado de universalidad que lo hace accesible a hombres de distintos orígenes geográfico, étnico y cultural. Por otro lado, si la civilización islámica ha sido históricamente la intermediaria natural entre el Oriente y Europa, esto se explica no sólo por la presencia del Islam en un área geográfica contigua a Europa y también parcialmente interna a la Europa misma (España, Sicilia, Balcanes), pero incluso con el hecho que entre las formas espirituales no cristianas, aquella islámica es la menos lejana, por sus características, de la mentalidad tradicional europea. Indicar los años Treinta como momento inicial de la expansión del Islam en Europa me induce a pensar que se atribuya cierta importancia a la influencia ejercida de la obra de Guénon y a las consiguientes reconexiones de grupos de europeos a los centros espirituales del mundo musulmán. Este fenómeno ha tenido ciertamente su peso, pero no se debe olvidar la contribución de otras causas y otros factores que han dado a la difusión del Islam (en primer lugar, los “desplazamientos étnicos” previstos justamente por Guénon).

P.- Frithjof Schuon escribe que el mundo es infeliz porque los hombres viven debajo de sus posibilidades. Posibilidades, por lo tanto, espirituales, no materiales…

R.– Visto que me cita a Schuon, me permitirá contestarle con una cita del mismo autor: “Ya que vivimos bajo todos los aspectos en una tal cáscara (Schuon alude a la “cáscara” de la relatividad existencial) necesitamos, para saber quiénes somos y a dónde vamos, de aquel desgarro cósmico que es la Revelación.”

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Aggiornamenti sulla situazione in Siria – 30 gennaio 2012

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Un gruppo terroristico armato ha fatto esplodere, nella mattina di ieri, con un ordigno controllato a distanza, un autobus per militari vicino a Sahnaya, alla periferia di Damasco, causando la morte di sei militari, fra cui due ufficiali tenenti, e ferendone altri sei.
Un generale e un membro delle forze dell’ordine sono rimasti feriti ieri nell’esplosione di due ordigni collocati da un altro gruppo terroristico lungo la strada Balyon-Kamsafra, nella provincia di Idleb, e fatti esplodere con un controllo a distanza.

Rietra nel piano di eliminazione dei quadri tecnici e scientifici del Paese l’uccisione ad Homs, da parte dei terroristi, dell’ingegnere agricolo Amal Isa, impiegata presso la Direzione dell’Agricoltura della città.

Il direttore della scuola superiore di Jasim, in provincia di Daraa, Nayf Al Danyfat, ha negato quanto diffuso dal canale Al Jazeera, secondo cui la scuola era stata presa d’assalto dalle forze di sicurezza e due persone erano state uccise.

Si chiariscono di giorno in giorno le prove circa la natura dei gruppi terroristici armati e delle organizzazioni salafite ad essi legate, sostenuti dai Paesi arabi e occidentali che cospirano contro il popolo siriano e che fanno arrivare nel territorio siriano diversi tipi di armi, mezzi di vandalismo e assassini.
Alcuni giorni dopo la scoperta dei rapporti di intelligence circa il reclutamento e l’addestramento di mercenari e terroristi da parte di Stati Uniti, Francia e Isralele, fra cui capi di milizie di delinquenti e prigionieri criminali arabi e stranieri, in campi di addestramento in Turchia e Libano, con finanziamenti dal Qatar, il giornale libanese Al Diyar ha diffuso la notizia secondo cui un ufficiale iracheno, che faceva parte della delegazione di osservatori della Lega Araba, ha accertato la presenza di mercenari, terroristi e persone con precedenti penali provenienti dall’estero, che portano avanti azioni di violenza e terrorismo in Siria.
Queste informazioni si aggiungono alle numerose prove che assicurano che l’esercito siriano e le autorità competenti stanno fronteggiando gruppi terroristici di diverse nazionalità e addestrati all’estero. Più di una volta funzionari libanesi hanno confermato l’infiltrazione di membri di Al Qaeda in Siria attraverso i confini con il Libano.
La cospirazione arabo-occidentale contro la Siria non si limita a far entrare nel Paese terroristi e sicari provenienti dall’Afghanistan e dall’Iraq, ma si estende anche all’ingresso di armi fabbricate dall’entità israeliana, i cui funzionari ritengono che il cambiamento di regime in Siria favorirebbe gli interessi strategici di Israele e aiuterebbe ad eliminare la Siria dall’asse della resistenza senza doversi sporcare le mani, il che spiegherebbe l’armamento, da parte di tale entità canaglia, dei gruppi terroristici armati. Ciò è stato confermato in diverse occasioni, in cui le autorità competenti hanno sequestrato armi di fabbricazione israeliana nei covi di organizzazioni terroristiche ad Homs, Hama, Idlib, Duma e in altre zone.

Una troupe di giornalisti inglesi, spagnoli e norvegesi ha visitato diverse zone della città di Daraa, rendendosi conto di come la vita proceda nella città. Il gruppo, composto da cinque persone del “Times” inglese, della televisione basca e del giornale “ABC” spagnoli e della televisione norvegese TV2, hanno incontrato il governatore di Daraa, Mohammad Khaled al-Hanous, che ha spiegato la situazione, sottolineando come le agende straniere abbiano sfruttato quanto accaduto nella città, in cui sono stati sabotati molti uffici pubblici, la maggior parte delle stazioni della polizia sono state assaltate e incendiate e sono state prese di mira le forze dell’ordine e l’esercito.
La troupe ha potuto visitare il palazzo di Giustizia, incendiato il 20 marzo scorso, e la sede della radio e televisione, assaltata e incendiata l’8 aprile scorso, oltre alla moschea Al Omary, nella città di Daraa, facendo un giro nei mercati cittadini e incontrando la popolazione.

Fonte: Ambasciata di Siria a Roma.

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L’enigma dell’Iran

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L’embargo petrolifero dell’UE che ha recentemente colpito l’Iran e le minacce espresse dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali di future ulteriori sanzioni contro il paese, hanno portato gli osservatori a concludere che alla fine un conflitto armato tra l’Iran e l’Occidente può essere imminente.

Il primo scenario potenziale nel contesto è che l’attuale situazione di stallo degeneri in una guerra. Le forze degli USA nell’area del Golfo attualmente contano 40.000 effettivi, oltre 90.000 sono schierati in Afghanistan, appena ad est dell’Iran, e molte migliaia di truppe di supporto sono dispiegate in diversi paesi asiatici. Aggiungendo ciò a un notevole potenziale militare che comunque non può fornire quello che serve per tenere tutto sotto controllo, se le ostilità armate dovessero scoppiare. Per esempio, Colin H. Kahl sostiene in un recente articolo su Foreign Affairs che, anche se “non c’è alcun dubbio che Washington vincerà in senso strettamente operativo”¹, gli Stati Uniti dovrebbero prendere in considerazione una vasta gamma di problemi pertinenti.

Al momento, mantenere lo status quo non è nell’interesse degli Stati Uniti, ritiene Stratfor, un’agenzia di intelligence globale statunitense: “Se al-Assad sopravvive e se la situazione in Iraq procede come ha proceduto, allora l’Iran sta creando una realtà che definirà la regione. Gli Stati Uniti non hanno una coalizione ampia ed efficace, e certamente non una che si possa radunare in caso di guerra. Hanno solo Israele… “² Se il conflitto con l’Iran prende la forma di una lunga campagna di bombardamenti e si presenta come un prologo all’occupazione del paese, gli Stati Uniti avranno bisogno di rafforzare la loro posizione nelle regioni adiacenti, il che significa che Washington cercherà di trascinare le repubbliche caucasiche (Georgia, Azerbaijan) e quelle dell’Asia centrale nella sua orbita politica, e quindi stringendo la “stretta dell’anaconda” intorno alla Russia.

Uno scenario alternativo merita, però attenzione. Le sanzioni UE farebbero sicuramente male a molte economie europee – in particolare, Grecia, Italia e Spagna – di rimbalzo. Infatti, il capo della diplomazia spagnola, José Manuel García-Margallo, ha descritto senza mezzi termini la decisione delle sanzioni come un sacrificio³. Per quanto riguarda l’Iran, il blocco petrolifero può causare al suo bilancio annuale una contrazione di 15-20 miliardi di dollari, che in genere non sarebbe critica ma, con le elezioni parlamentari del paese e le elezioni presidenziali del 2013 che si stanno avvicinando e l’Occidente che è attivo nel puntellare l’opposizione interna, potrebbero derivarne dei disordini interni.

Teheran ha già messo in chiaro che farà seri sforzi per trovare acquirenti alle sue esportazioni di petrolio altrove. Cina e India, rispettivamente numero uno e numero tre dei clienti dell’Iran, hanno momentaneamente spazzato via l’idea delle sanzioni USA. Il Giappone ha garantito il supporto a Washington sulla questione, ma non avvierà alcun tipo di piano specifico per ridurre i volumi di petrolio che importa dall’Iran. Il Giappone, tra l’altro, è stato duramente colpito nel 1973 quando Wall Street ha provocato una crisi petrolifera e le garanzie degli Stati Uniti si dimostrarono vane. Di conseguenza, ci si può aspettare che Tokyo approcci alle sanzioni suggerite da Washington con la massima cautela e chieda agli Stati Uniti garanzie inequivocabili che la Casa Bianca non sarà in grado di fornire. Inoltre, gli Stati Uniti stanno corteggiando la Corea del Sud con l’obiettivo di farle tagliare le importazioni di petrolio dall’Iran.

L’opposizione crescente ai piani che preparano lo scenario militare di Cina, Russia, e India sembra mantenere la promessa di una alleanza di paesi che cercano di domare l’egemonia e l’unilateralismo furioso degli Stati Uniti. Gli analisti di Stratfor hanno puntato sul fatto che il tempo non è dalla parte degli Stati Uniti, considerando che i paesi BRIC hanno qualche opportunità di influenzare la situazione nella zona del potenziale conflitto, con il lancio di manovre congiunte anti-terrorismo e anti-pirateria nel Mare Arabico e nel Golfo Persico.

Indurre il cambiamento di regime in Iran, l’obiettivo finale di Washington, ha ancora un pretesto. Gli Stati Uniti hanno da tempo adocchiato varie fazioni in Iran, nella speranza di sfruttare le rivalità nazionali esistenti nel paese, impiegando parallelamente la tecnica consolidata delle rivoluzioni colorate, come il sostegno al Movimento Verde o la creazione di una ambasciata virtuale per l’Iran.

Richard Sanders, un critico della politica estera degli Stati Uniti, ha rilevato che, almeno dall’invasione del Messico alla fine del secolo XIX, gli Stati Uniti hanno sempre invocato il meccanismo degli incidenti come pretesto per la guerra, avanzando varie giustificazioni per i suoi interventi militari⁴. L’arciconservatore statunitense Patrick J. Buchanan ha evocato, nel suo articolo di opinione intitolato “Did FDR Provoke Pearl Harbor?”, una visione abbastanza comune secondo cui circoli finanziari statunitensi hanno deliberatamente provocato l’attacco di Pearl Harbor per trascinare gli Stati Uniti in una guerra lontana, con l’obiettivo di assicurarsi il primato mondiale dell’impero del dollaro⁵. La lezione da trarre dalla storia della guerra del Vietnam, e cioè del golfo del Tonchino, in cui l’USS Maddox entrò nelle acque territoriali del Vietnam e aprì il fuoco sui natanti della sua marina militare, è che il conflitto iniziale venne similmente provocato dai servizi d’informazione USA, e il risultato fu che il Congresso degli USA autorizzò LBJ a impegnarsi militarmente in Vietnam. (A proposito, nessuna reazione fece seguito, nel giugno del 1967, quando gli israeliani attaccarono la USS Liberty, uccidendo 34 persone e ferendone 172). I concetti moralmente caricati di interventi umanitari e guerra al terrore furono giustamente invocati anche per legittimare le aggressioni ingiustificabili contro la Jugoslavia, l’Iraq e l’Afghanistan.

Parlando degli sviluppi in corso nel Golfo Persico, la scelta di Washington dei pretesti per un’aggressione comprende almeno tre opzioni, vale a dire¹ il dossier nucleare dell’Iran² una escalation progettata nello Stretto di Hormuz,³ accuse che l’Iran sostenga il terrorismo internazionale. L’obiettivo degli Stati Uniti dietro la pressione sull’Iran per il suo programma nucleare – spingere tutto il mondo ad accettare le regole del gioco di Washington – non è mai stato veramente nascosto. Il discorso abbondantemente allarmista ha lo scopo di distogliere l’attenzione dalla semplice verità che la costruzione di un arsenale nucleare con l’aiuto di tecnologie nucleari civili, è assolutamente impossibile, ma Matthew H. Kroenig del Council on Foreign Relations di recente è andato sul punto avvertendo che l’Iran un giorno passerà le sue tecnologie nucleari al Venezuela⁶. La motivazione deve essere quella di, in qualche modo, raggruppare tutti i critici della politica estera degli Stati Uniti.

Lo Stretto di Hormuz, che è il collo di bottiglia marittimo del Golfo Persico, è considerato l’epicentro della imminente nuova guerra. Serve come via per le forniture di petrolio da Iran, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, ed è quindi strettamente monitorato da tutte le parti suscettibili di entrare in conflitto. Secondo il dipartimento dell’energia degli Stati Uniti, nel 2011 il transito del petrolio attraverso lo Stretto di Hormuz ammontava a 17 miliardi di barili, ovvero circa il 20% del totale mondiale⁷ . I prezzi del petrolio dovrebbero aumentare del 50% se succedesse qualcosa di inquietante nello Stretto di Hormuz⁸.

Passando attraverso lo Stretto di Hormuz, si naviga attraverso le acque territoriali di Iran e Oman. L’Iran concede a titolo di cortesia il diritto di navigare attraverso le sue acque sulla base del trattato delle Nazioni Unite sul trasporto merci marittimo. Ciò deve essere inteso in relazione alle dichiarazioni ricorrenti di Washington relative alla Stretto di Hormuz, che a questo proposito gli Stati Uniti e Iran hanno lo stesso peso giuridico, come i paesi che hanno scritto ma non ratificato il trattato, e quindi gli Stati Uniti non hanno alcun diritto morale di riferirsi al diritto internazionale. L’amministrazione iraniana ha sottolineato recentemente, dopo consultazioni con gli organi legislativi nazionali, che Teheran sarebbe forse oggetto di una revisione della normativa in base al quale sono ammesse navi straniere nelle acque territoriali iraniane⁹.

Le marine dovrebbero anche rispettare certe leggi internazionali, in particolare, quelle che definiscono la distanza minima da mantenere dalle navi di altri paesi. Si parla costantemente nei media statunitensi di navi iraniane che rischiosamente si avvicinano alle navi statunitensi ma, come notano gli osservatori, provocatori come i separatisti del Baluchistan iraniano, sponsorizzati dalla CIA, in alcuni casi potrebbero essere usati per trucchi sotto mentite spoglie.

Le probabilità sono che una parte del piano dell’embargo petrolifero sia quello di procurare all’Occidente difficoltà nell’approvvigionamento di petrolio e iniziare la costruzione di oleodotti in Arabia Saudita, Bahrain, Oman, Yemen, Qatar e Iraq, come percorsi alternativi per raggiungere le rive del Mar Arabico, Mar Rosso e Mar Mediterraneo. Alcuni di questi progetti, la Hashan-Fujairah pipeline, per esempio, sono oggi in fase di attuazione. Se questa è l’idea, la spiegazione dietro la tendenza di Washington a convincere i suoi alleati a creare una infrastruttura “più sicura” è semplice. La geopolitica è una realtà ineludibile, che deve essere presa in considerazione, però, se i paesi della regione rimangono chiusi in una varietà di conflitti e, per ragioni geografiche Teheran sarà un giocatore chiave, anche se gli oleodotti vengono avviati.

Poiché la nuova strategia militare degli Stati Uniti implica la concentrazione su due regioni – il Grande Medio Oriente e il Sud Est Asiatico – la questione dello stretto di Hormuz sembra accoppiarsi a quella dello Stretto di Malacca, che offre il percorso più breve per la fornitura di petrolio dall’Oceano Indiano a Cina, Giappone, Corea del Sud e resto del Sud Est Asiatico. La disposizione implicita dei fattori nel processo decisionale dei paesi asiatici riguardo l’Iran.

Il precedente della “guerra al terrore” – una campagna durante la quale gli Stati Uniti occuparono sotto dubbi pretesti Iraq e Afghanistan, al costo di migliaia di vite – deve anche essere tenuto a mente. Tempo fa, la Casa Bianca ha sancito le attività sovversive contro varie parti dell’amministrazione iraniana, compresi i Guardiani della Rivoluzione Islamica. L’ex agente della CIA Philip Giraldi scrive che gli agenti statunitensi e israeliani sono stati attivi in Iran per un bel po’ di tempo e sono responsabili dell’epidemia del virus Stuxnet e per la serie di omicidi di fisici nucleari iraniani. I gruppi in Iran che si sono allineati con i nemici del paese sono Mujahidin del Popolo Iraniano, i separatisti del Baluchistan del Jundallah, il cui leader Abdolmajid Rigi è stato arrestato nel febbraio del 2010 dalle forze di sicurezza iraniane e ha ammesso di aver collaborato con la CIA, e il curdo Vita Libera del Kurdistan¹⁰.

In sostanza, una guerra contro l’Iran – a livello di guerra segreta – è in corso. Il problema che le parti in causa stanno cercando di risolvere è trovare un modo di prevalere senza entrare nella fase “calda” del conflitto.

(Traduzione di Alessandro Lattanzio)

 
NOTE:
1. Colin H. Kahl. Not Time to Attack Iran. 17 gennaio, 2012.
2. Iran, the US and the Strait of Hormuz Crisis. 17 gennaio, 2012. http://www.stratfor.com/weekly/iran-us-and-strait-hormuz-crisis?utm_source=freelist
3. La UE acuerda vetar las importaciones de petroleo de Iran. 23.01.2012
4. Richard Sanders. How to Start a War: The American Use of War Pretext Incidents. Global Research, January 9, 2012. Global Research, 9 gennaio 2012. http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=28554
5. http://buchanan.org/blog/did-fdr-provoke-pearl-harbor-4953
6. Recent Events in Iran and the Progress of Its Nuclear Program. 17 gennaio, 2012.
7. http://www.eia.gov/cabs/world_oil_transit_chokepoints/full.html
8. Michael T. Klare. Danger Waters. 10 gennaio 2012. http://aep.typepad.com/american_empire_project/2012/01/danger-waters.html
9. Mahdi Darius Nazemroaya. La Geo-Politica dello Stretto di Hormuz: Può la Marina degli Stati Uniti essere sconfitta dall’Iran nel Golfo Persico? Global Research, 8 gennaio 2012. http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=28590
10. Philip Giraldi. Washington’s Secret Wars. Washington, Secret Wars. 8 Dic 2011.

 
Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2012/01/27/the-conundrum-of-iran.html

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