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Channel: Sviluppo pacifico – Pagina 136 – eurasia-rivista.org
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La crisi che verrà

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Alla fine degli anni Trenta, anche se la quota dell’industria italiana nel prodotto nazionale era leggermente superiore rispetto a quella dell’agricoltura, circa la metà della forza lavoro italiana era agricola e poco meno di un terzo era industriale. Il potenziale industriale totale del nostro Paese era inferiore a quello russo e ammontava a poco più del 20% di quello tedesco. Il prodotto nazionale lordo pro capite era superiore a quello russo, ma ammontava a meno del 50% di quello tedesco o britannico. E se in Germania l’analfabetismo era quasi del tutto scomparso, in Italia nel 1931 il tasso di analfabetismo era ancora del 20,9% tra i cittadini sopra i sei anni. Dopo la Grande Depressione del 1929, lo Stato però era diventato proprietario di gran parte dell’industria pesante, tanto che si trovavano in mani pubbliche il 75% della produzione di ghisa e il 45% di quella dell’acciaio, l’80% dei cantieri navali e il 90% del trasporto merci. L’Italia era cioè sulla strada per diventare una società industriale, anche se era ancora ben lungi dall’esserlo.¹

D’altronde, la Seconda guerra mondiale poté solo “frenare” il processo di modernizzazione del Paese, ma non annullare i progressi compiuti negli anni precedenti. Non a caso furono proprio le industrie statali e parastatali, insieme con le piccole e medie imprese, a guidare lo sviluppo italiano dopo la guerra. Uno sviluppo che nel giro di qualche lustro trasformò una società ancora in larga misura fondata sul settore primario in una società industriale avanzata.

Inoltre, è innegabile che l’Italia, pur essendo un Paese a sovranità limitata, sfruttando l’invidiabile posizione geografica e perfino la presenza di un forte partito comunista, seppe pure manovrare tra i due “blocchi” e “ritagliarsi” un certo spazio geopolitico, allo scopo di difendere l’interesse nazionale, anche se naturalmente vi erano “confini” che non potevano essere superati. Nondimeno, l’Italia rimaneva un Paese povero di materie prime, caratterizzato da una economia di trasformazione e quindi quasi completamente dipendente dall’estero. Una condizione che si era già dimostrata essere una delle cause della debolezza dell’Italia, sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale, al di là della impreparazione bellica e degli errori del regime fascista.

Pertanto, anche considerando che l’Italia non è mai stata una potenza militare, ci si poteva solo illudere di contare qualcosa nell’ambito della Nato, fatta eccezione per quanto concerneva la logistica (basi, installazioni, aeroporti, magazzini, depositi, centri di comunicazione etc.). Il che avrebbe dovuto indurre la classe dirigente italiana a rinunciare alla velleitaria idea di potere svolgere il ruolo di junior partner degli Stati Uniti e a adoperarsi sia per creare una forza militare europea, indipendente dalla Alleanza Atlantica, sia per dar vita ad un nuovo modello di difesa nazionale e popolare. Un compito non impossibile dopo il crollo dl Muro e la scomparsa del Patto di Varsavia. Il nostro Paese scelse invece di abolire, anziché “ri-formare”, il servizio di leva, grazie anche al fatto che l’intellighenzia italiana, che si è sempre vantata della propria ignoranza della storia e dei problemi militari, non comprese (o peggio ancora fece finta di non comprendere) che in tal modo si sarebbero vieppiù indeboliti il senso dello Stato e il senso di “appartenenza” degli italiani.

D’altra parte, l’incapacità dell’Unione europea di evitare la disintegrazione della Iugoslavia non solo mostrò chiaramente la fragilità politica dell’Europa, ma offrì agli Stati Uniti l’occasione di ristrutturare la Nato, di modo che a “decidere” – e di conseguenza a distinguere tra “amici e nemici”, a stabilire cioè chi fosse “il nemico dell’Europa”- fossero gli Stati Uniti (e solo gli Stati Uniti). Cosicché la Nato da organizzazione per la difesa (almeno “sulla carta”) del continente europeo divenne una organizzazione “al servizio” della politica di potenza statunitense. Sotto questo aspetto, si riconosceva implicitamente la totale sottomissione dell’Europa politica alla superpotenza nordamericana, senza nemmeno che l’opinione pubblica europea se ne accorgesse, dato che era convinta che la fine dell’Unione Sovietica avrebbe coinciso con l’inizio di nuova era di pace e prosperità.

Non sorprende perciò che negli stessi anni in cui si gettavano le fondamenta di “Eurolandia”, l’Italia sia stata travolta da una bufera giudiziaria (Mani Pulite), che spazzò via gran parte del “vecchio” e corrotto ceto politico democristiano e socialista, e quasi messa in ginocchio da uno tsunami finanziario, scatenato dalla finanza anglosassone e che si concluse con la svalutazione della nostra moneta, dopo una inutile e costosissima difesa della lira, da parte dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Azeglio Ciampi.

Ciò permise all’oligarchia atlantista di sferrare un colpo letale al nostro Paese, costringendolo a svendere gran parte del patrimonio pubblico strategico al capitale privato, perlopiù straniero, al fine di ridurre il debito pubblico, come se quest’ultimo non fosse stato causato soprattutto dagli interessi che si dovevano pagare sul debito, dacché, nel 1981, la Banca d’Italia aveva divorziato dal Tesoro, costringendo lo Stato ad aumentare il tasso d’interesse per vendere i propri titoli ai privati (anche se solo a partire dalla metà degli anni Novanta il debito pubblico fu in larga misura “internazionalizzato”; una scelta che si è rivelata assai “infelice” con il passare degli anni e che fa dubitare della buonafede di chi la fece). Sicché, oggi il nostro Paese si trova quasi del tutto privo sia di quella “potenza” che aveva consentito ad Enrico Mattei di aprire nuove corsie geostrategiche, allo scopo di favorire la crescita dell’Italia in un’ottica geopolitica decisamente opposta a quella difesa dai circoli atlantisti, sia delle competenze politiche necessarie per contrastare efficacemente le decisioni di un’Unione europea diventata strumento del sistema finanziario occidentale.

Ma ancora più preoccupante è che la cosiddetta “seconda Repubblica” sia, in realtà, una sorta di “copertura” per l’azione di gruppi di potere che svolgono il ruolo di cinghia di trasmissione dei “mercati”. Al riguardo, è rilevante non tanto che la ricchezza si sia concentrata negli ultimi anni nelle mani di pochi (il 10-20% della popolazione), quanto piuttosto il fatto che si sia formata una oligarchia che non ha alcun interesse né a valorizzare l’apparato tecnico-produttivo in funzione di un potenziamento del settori strategici nazionali, né a rappresentare in modo adeguato e intelligente le piccole e medie imprese. Vale a dire quel tessuto produttivo estremamente articolato e differenziato che è una delle principali risorse del Paese, benché sia gravemente penalizzato dalla dissennata ed irrazionale politica di Equitalia (ammesso e non concesso che non sia una “politica calcolata”).

Peraltro, senza le “quinte colonne”, di destra e di sinistra, che si combattono per aggiudicarsi i favori della “manina d’oltreoceano”, ben difficilmente il nostro Paese si sarebbe ridotto a diventare terra di conquista per i “valvassori” tedeschi o i “valvassini” francesi. Comunque sia, tralasciando la questione di un europeismo assai male inteso (nel migliore dei casi), ma funzionale ad una tecnologia sociale capace di instaurare una specie di dittatura finanziaria, è indubbio che in Italia il processo di modernizzazione sia venuto progressivamente a identificarsi con un processo di “colonizzazione” che minaccia di vanificare decenni di lavoro, di lotte e di sacrifici del popolo italiano e che probabilmente costringerà l’Italia a svendere quel che ancora rimane del capitale strategico nazionale (Eni, Enel, Finmeccanica etc.).

Del resto, è palese che vi siano “centri di potere” che premono affinché “si adegui” l’intero sistema sociale e culturale italiano ai diktat dei “mercati”, anche promuovendo un individualismo consumistico e massificato (che è la “negazione” del singolo in quanto “individuo differenziato”) in un Paese come il nostro che non fino a molti anni fa, nonostante gli squilibri derivanti da un mutamento sociale tanto rapido quanto caotico, aveva saputo invece trarre profitto proprio dal fatto di non essere del tutto integrato nel “sistema occidentale”. Si spiega così (almeno in parte) lo stesso berlusconismo come fenomeno contraddittorio, in quanto espressione di un americanismo grossolano e superficiale e al tempo stesso come espressione, sia pure in forma distorta (e talora aberrante), di una cultura (popolare) assai diversa da quella angloamericana. Da qui pure le accuse di populismo e di “fascismo postmoderno” al centro-destra, non perché favorevole al processo di modernizzazione/”colonizzazione” del nostro Paese, bensì perché in un certo senso ritenuto un ostacolo a tale processo (come Monti sostenne in un editoriale del Corriere della Sera, poco prima di essere designato presidente del Consiglio dai “mercati”).²

Si può dunque affermare che la degenerazione del conflitto politico in una lotta tra bande mercenarie, il degrado istituzionale, l’inefficienza della pubblica amministrazione, l’assistenzialismo, il clientelismo, la corruzione, il declino del sistema educativo e dell’informazione e la progressiva decomposizione del tessuto sociale hanno consentito ai “mercati” di imporre un loro “governo”, al fine di completare l’opera di “colonizzazione” dell’Italia, in base a quanto si era “convenuto” nella famosa riunione a bordo del Britannia, non essendoci dubbi – e certo non ne avevano i partecipanti, indipendentemente da ogni “dietrologia” – su quale fosse il significato politico di quella riunione.

In questa prospettiva, il futuro del nostro Paese sembrerebbe già deciso, non essendoci né la volontà né la potenza per superare positivamente una crisi che è non solo economica, ma politica e culturale e che sembra ricacciare la Penisola al tempo di “o Franza o Spagna, purché se magna”. Tuttavia, com’è noto, si tratta di una crisi che concerne l’intera Europa e che è connessa al declino “relativo” degli Stati Uniti, di cui è parte costitutiva lo stesso sistema finanziario che, oltre ad aver causato una “selvaggia” redistribuzione della ricchezza verso l’alto e generato un’immensa “bolla speculativa”, agisce secondo una logica mondialista che ha di mira la subordinazione degli Stati nazionali ai “mercati”, ovvero alla élite che li controlla sotto il profilo politico e strategico.

Epperò è logico che l’attrito, l’eterogenesi dei fini, le lotte all’interno del gruppo dominante e tra i subdominanti, le scelte che inevitabilmente l’Europa dovrà fare per evitare di collassare e la necessità di confrontarsi con nuove “realtà geopolitiche” possano “interagire” in modo del tutto imprevedibile sia con la crisi dell’unipolarismo americano e la nuova dottrina strategica di Washington (imperniata su un “approccio indiretto”, che lascia ampi margini di azione ai gruppi subdominanti), sia con i difetti sempre più evidenti della “forma politica” degli Stati europei.

Per questo motivo, se da un lato si deve prendere atto che il “male” che affligge l’Italia ha ormai aggredito perfino i gangli vitali della Nazione, di modo che è assai improbabile che le non poche “energie” (non solo produttive) ancora presenti siano sfruttate, secondo un piano strategico coerente e di ampio respiro, da una classe dirigente degna di questo nome; dall’altro, si deve pure riconoscere che il sistema capitalistico occidentale non può avere la capacità di controllare tutti gli “effetti” della crisi, sebbene abbia provato di essere in grado di strutturasi in funzione del caos che esso stesso genera. Ancora più significativo però è che, sia pure lentamente si faccia strada la convinzione, che le istituzioni politiche liberali, soprattutto in mancanza di una autentica forza politica nazionalpopolare (o “socialista”), non possono non fare da tramite fra gli Stati Uniti e quei gruppi subdominanti i cui privilegi non potrebbero sussistere senza l’appoggio della potenza capitalistica predominante.

Si equivocherebbe, tuttavia, il senso del nostro articolo, che altro non vuol essere se non un’interpretazione (geo)politica del “nostro presente” alla luce di alcuni tratti distintivi della recente storia italiana, qualora non si tenesse conto che (come giustamente sostiene Alexsandr Dugin)³ che l’alternativa all’atlantismo e al liberalismo la si deve cercare non nel passato, qualunque esso sia, bensì nel futuro. Non nel senso che sia “destinata” a verificarsi, dato che è pacifico che non vi possa essere (solo) la categoria modale della necessità a fondamento dei processi storici. Ma il tramonto di una concezione deterministica della storia significa pure che non vi è alcuna necessità storica che consenta di escludere a priori che ancora una volta, come è accaduto sovente nella storia, quel che pareva essere “destinato” alla sconfitta, per un complesso di circostanze storiche e culturali, possa invece capovolgere la situazione a proprio vantaggio.

In relazione al tema che si è trattato, benché assai sinteticamente, in questo nostro scritto, ne consegue quindi che se il nostro Paese ha poca o nessuna possibilità di influire su tali circostanze, non è affatto impossibile che si producano delle condizioni che permettano di contrapporre alla “pre-potenza” dell’atlantismo ed ai “mercati sovrani” i diritti e la sovranità delle genti dell’Eurasia. Se così fosse però non sarebbe l’Economico, ma il Politico a “decidere”. Ed è questo forse l’unico motivo per cui, nonostante tutto, vale ancora la pena di continuare a lottare per un’Italia “diversa”.

*Fabio Falchi è redattore di Eurasia

Note:
1. Per questi dati, vedi MacGregor Knox, Alleati di Hitler, Garzanti, Milano, 2000, pp. 35-37 e 50.
2. Cfr. Lettera al Premier, Mario Monti – “Corriere Della Sera”
3. Cfr. Intervista ad Aleksander Dugin, profeta di Russia – “Rivista Strategos”

 

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La Mauritania espelle il Qatar

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A capo di una folta delegazione di funzionari e imprenditori privati con cui l’emiro del Qatar, Hamad, aveva compiuto il 5 gennaio, una visita ufficiale in Mauritania, un membro della Lega Araba. In programma la firma di diversi accordi di cooperazione tra i due paesi. La Mauritania, si ricorderà forse, aveva votato con la maggioranza dei membri della Lega a favore delle sanzioni contro la Siria.

L’interferenza compulsiva e fatale dell’Emiro Hamad

A priori, i qatarioti erano dunque in terra amica. Ahimè, l’emiro si è comportato piuttosto come se fosse in terra di conquista: nella sua seconda e ultima riunione con il presidente mauritano Mohammed Weld Abd el Aziz, la testa coronata del Qatar ha cominciato a consigliare al suo interlocutore di avviare mutamenti politici verso l’apertura e la democratizzazione, in particolare di aprirsi all’opposizione locale, casualmente islamista. Ad un certo punto della conversazione, l’emiro Hamad consigliava senza mezzi termini al Presidente della Mauritania di incontrarsi con il suo avversario, Sheikh Mohammed Belhassen Weld Dadu, il capo degli islamisti locali.
Da quel momento, sembra che il tono si sia inasprito tra i due capi di Stato, il presidente al-Aziz consigliava in sostanza, a sua volta, al suo ospite regale di farsi gli affari propri, criticando anche l’interferenza diretta e totale del Qatar, in particolare attraverso al-Jazira, negli affari interni degli altri paesi arabi. Al-Aziz aveva usato il termine “esportazione della rivoluzione” nel definire la prassi diplomatica dell’emirato. E comunque, la lezione su apertura, dialogo e democrazia fa un brutto effetto sulla bocca di un potente che regna sovrano da solo, e senza aver un grande dialogo verso i qatarioti e i tantissimi lavoratori immigrati, senza diritti, che costituiscono la stragrande maggioranza (80%) dei residenti nell’emirato.
Di conseguenza, l’emiro e il suo entourage sono ripartiti da soli dall’aeroporto di Nuakshott, senza essere accompagnati dal loro ospite mauritano, come il protocollo avrebbe voluto, e come era avvenuto all’arrivo del principe. Che avrebbe addirittura proibito ai suoi ministri di sostituirlo, in quella circostanza! E’ un caratteristico incidente diplomatico!

Nascita e crescita dell’insofferenza araba verso il Qatar

Un incidente tanto più clamoroso poiché la visita del sovrano del Qatar, prometteva di essere di miglior auspicio, essendo stato preparata da molto tempo, ed essendo la Mauritania non aver precedentemente segnalato una opposizione determinata contro il Qatar e le monarchie del Golfo, anche durante l’episodio in cui il Qatar è andato oltre le interferenze verbali in Libia, con gli aerei dell’emirato che partecipavano a fianco della NATO – unico stato arabo a farlo – al bombardamento delle posizioni dei gheddafisti. Inoltre, Nuakshott e Doha erano già vincolati da una serie di accordi su energia, alloggi, lavoro, immigrazione, ecc.
Infatti, l’emiro Hamad aveva anche avuto la spiacevole sorpresa di essere salutato, scendendo dall’aereo, dai manifestanti pro-Gheddafi e pro-Bashar al-Assad che l’accusavano a gran voce di essere il nemico “delle nazioni arabe della Resistenza”! Inoltre, questi manifestanti insultavano anche il presidente mauritano, che accusavano proprio di prostrarsi davanti al Qatar! Avranno subito aggiornato le loro parole d’ordine, almeno quelle relative a Mohammed Weld Abd el Aziz …
Una delle particolarità, però, del governo mauritano, impostosi dopo un colpo di stato nell’agosto del 2008, è di mantenere le migliori relazioni con l’Iran, cosa che non è nel caso del Qatar. Se quest’ultimo sperava che i mauritani avrebbero fatto da tramite con il nemico storico, ha alquanto fallito.
Sembra che dalla Mauritania all’Iraq, passando per Libano, Algeria, Egitto e forse anche l’Arabia Saudita, l’attivismo “pro-democrazia” e soprattutto pro-islamista del ricco emirato, stia ora creando un fastidio enorme, e anche un rifiuto. E’ possibile che questo stato-forziere esca finalmente indebolito dalla primavera araba e, in ogni caso, dalla crisi siriana. Ciò sarebbe altamente morale!

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte: http://www.infosyrie.fr/actualite/la-mauritanie-indique-la-sortie-au-qatar/

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Recensione del libro “I Paesi del Grande Màghreb. Storia, Istituzioni e geo-politica di una identità regionale”

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F. Tamburini e M. Vernassa, I Paesi del Grande Màghreb. Storia, Istituzioni e geo-politica di una identità regionale

Recensione di Giovanni Armillotta

La prima caratteristica del libro che ci accingiamo e recensire e che colpisce il lettore, è il fatto sia uscito una settimana prima dell’inizio della serie di rivolte nel Màghreb (ar. trasl. al-Maġrib al-‘Arabī). Essa ha preso avvio da quando il venditore ambulante tunisino Mohamed Bouazizi (n. 1984) s’è dato fuoco il 4 gennaio di quest’anno in segno di protesta per le condizioni economiche personali e del suo Paese.

I fatti che stanno avvenendo in Africa mediterranea si prestano alla malafede delle opinioni interventiste e criminalmente “umanitarie” a suon di bombe e civili assassinati, con il completo immobilismo dei pacifinti, una volta pilotati dal piccì, adesso omologato ai voleri della Casa Bianca. Tutto questo su ordinazione delle “democrazie” compiute e rivelate dai verbi di Washington, Parigi e Londra, con l’Italia berlusconiano-finian-bersaniana nelle vesti di garçon-pipi di imperialismo e neocolonialismo a spregio dell’Art. 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Un brocardo, ormai, declassato a canzoncina per scuole primarie o nella memoria di qualche maestra e professoressa che ci credono ancora e sul serio.

A tutto ciò uniamo l’ossimorica ampia pochezza di quegli stessi mezzi di comunicazione di massa in riferimento agli Stati in oggetto. La totale ignoranza di parte di “esperti”, lacchè, “giornalisti” e gazzettieri a contratto, succedutisi. Pagati per convincere la gente che le salme trafugate pre-rivolta dai cimiteri, siano i “martiri” libici immolatisi a favore dei valori pornografici e cocacolistici dell’Occidente ameriko-franco-britannico. E – a parer loro – quegli stessi bambini, religiosi e civili massacrati dalle bombintelligenti della Nato non eran altro dei biechi terroristi gheddafiani.

I Paesi del Grande Màghreb. Storia, Istituzioni e geo-politica di una identità regionale (Plus, Pisa 2010, € 18,00) è un formidabile volume-strumento di conoscenza storica degli Stati in argomento. Maurizio Vernassa (docente di Storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa) e Francesco Tamburini (dottore di ricerca in Storia, istituzioni e relazioni internazionali dei Paesi extraeuropei) sono i profondi e attenti conoscitori dell’ambiente trattato. L’opera e lo svolgimento dei fatti in essa contenuti, dànno reali chiavi interpretative ai sommovimenti attuali; il lettore, tra le altre cose, si spiega pure il perché il Marocco abbia attraversato pressoché indenne il periodo di torbidi, a cui l’equilibrio murale nella Repubblica Araba Democratica del Sahara è strettamente collegato.

L’analisi contenuta nelle pagine ci aiuta a comprendere che la grande crisi che si sta producendo sulle coste meridionali del nostro Mare Maggiore ha dato vita a una reazione a catena anche sul piano economico e sociale. Essa costituisce un ammonimento nei confronti sia di un ceto politico ricchissimo, impreparato e allegro – quello rappresentato da entrambi le ali parlamentari del nostro Paese – che dell’Unione Europea, la quale cerca di scaricare sull’Italia la disperazione importata, che il linguaggio politicamente corretto nostrale preferisce definire “migranti”, mentre il resto del Continente bianco non si perita a chiamare clandestini non graditi. Iniziando da Sarkozy per finire ai muri di Obamaltroni, i quali cercano di tenere lontani i latinos – come gli amerikani chiamano con disprezzo messicani e ispanolusofoni in generale.

I “migranti” quali oggetto di tratta e traffico di corpi, come ha azzardato il capo dello Stato: «La comunità internazionale, e innanzitutto l’Unione Europea, non possono restare inerti dinanzi al crimine che quasi quotidianamente si compie organizzando la partenza dalla Libia su vecchie imbarcazioni ad alto rischio di naufragio di folle disperate di uomini, donne, bambini. È un crimine lucroso gestito da avventurieri senza scrupoli, non contrastati dalle autorità locali per un calcolo, forse, di rappresaglia politica contro l’Italia e l’Europa. Ma è un crimine che si chiama “tratta” e “traffico” di esseri umani, ed è come tale sanzionato in Europa e perfino al livello mondiale con la Convenzione di Palermo delle Nazioni Unite nel 2000»¹

Schiavi veri e propri! Un Presidente della Repubblica che forse ha subìto gli strali silenti di alcuni i quali cercano di spacciare i “migranti” in guisa di futuri cittadini elettori del partito x o di quello y, nascondendo il fatto che il loro contentarsi, la propria rassegnata propensione a lasciarsi sfruttare per pochi euro, non fa altro che eliminare i diritti e le conquiste del lavoro. Dovuti essi ad anni di lotte della classe operaia internazionalista dal laburismo in qua: passando per la Costituzione messicana del 5 febbraio 1917, la Rivoluzione d’Ottobre (1917), la Repubblica di Weimar (1919) e la Carta del Lavoro (1927). Un diktat dei padroni, avallato e firmato dai ben pasciuti rappresentanti della cosiddetta “sinistra” atlantica e della risibile destra di governo e d’“opposizione”. Napolitano invece, da vecchio comunista, ha iniziato a ben vedere come stanno le cose: però ha 86 anni.

Il volume, testo universitario presso la cattedra di Storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici, permette al lettore di impossessarsi a fondo e concettualmente del Màghreb, e si consiglia il suo apprendimento assieme ad altri contributi – citati in bibliografia – i quali, nel loro tempo, non potevano avere esaminato la situazione vicina all’oggi, come invece hanno fatto inesorabilmente gli Autori.

Si tratta di un libro che ripercorre la storia degli Stati del Màghreb dalla decolonizzazione ai giorni nostri. Di Algeria, Libia, Marocco, Mauritania e Tunisia sono affrontati lo sviluppo ed il funzionamento delle istituzioni politiche e la complessa relazione tra etnie, religione, partiti politici e poteri nazionali. Nel contesto sono altresì posti in grande rilievo gli affari esteri tra i Paesi dell’area, com’anche i rapporti diplomatici di questi con le organizzazioni internazionali e regionali (Lega Araba, Unione Africana, ecc.). Nell’introduzione sono accennati pure i precetti di diritto islamico, e nel complesso il volume vanta un eloquente numero di mappe e grafici.
Un capitolo è dedicato all’Unione del Màghreb Arabo, l’ente sovrastatale che, sorto nel 1989, avrebbe dovuto riunire i cinque Paesi e costituire una sorta di comunità economica in competizione con la ventura Ue. Però tutto questo s’è risolto in un nulla di fatto a causa della diversità di interessi e peculiarità degli Stati in questione.

Il metodo di lavoro degli Autori risulta ben diverso da coloro che intonano peana di ringraziamento al de relato, al déjà vu e alle communes opiniones, e conseguenti stanche riletture di scuole terze. Esso rappresenta, invece, uno sforzo originale di sintesi, che si traduce in una monografia di spessore eccezionalmente esaustivo. Utile, anche e soprattutto, perché pone l’accento su questioni poco note o – come spesso accade nell’Italia mass-mediatica – date per scontate, e che invece dovrebbero appartenere al bagaglio culturale di ciascuno di noi, in quanto ogni giorno saremo sempre più coinvolti con la realtà nordafricana, e maghrebina in particolare.

Possiamo così seguire uno studio d’eccellenza che, rispetto al quadro attuale mi riporta alla mente le parole di Cesare Cantù quando iniziò a parlare della Rivoluzione francese: «Noi descriviamo più a disteso la prima rivoluzione di Francia, perché vi troviamo tutte le fasi e anche tutte le fisionomie delle successive; le quali sono ad essa il quadretto d’un paesista a una scena delle Alpi» (1854).

*Giovanni Armillotta (PhD) è cultore di Storia e istituzioni dei Paesi afro-asiatici; Storia, politica e relazioni internazionali dell’Africa indipendente; e Storia dell’Asia del Novecento presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Giornalista. Direttore responsabile di «Africana», fra i soli quindici periodici italiani consultati dall’«Index Islamicus» dell’Università di Cambridge. Collabora ad «Affari Esteri» (trimestrale promosso dal Ministero degli esteri), «Africa e Mediterraneo», «Balkanistika» (University of Mississippi), «Eurasia», «The Europa World Year Book» (Londra), «il Grandevetro», «IJAS» (Columbia University), «Limes», «Limes on line» (rubrica: Le verità nascoste), «Nuova Storia Contemporanea», «L’Osservatore Romano», «politicaestera.info», «La porta d’Oriente», «Rivista Marittima», e altre pubblicazioni quotidiane e specializzate. Nel 2001 ha scritto Egitto. Affari esteri 1967-1986 (Edistudio, Pisa); nel 2007 L’Angola e l’ONU. Dagli inizi della lotta di liberazione alla fine della guerra civile (1961-2002) (Aracne, Roma; testo dell’insegnamento di Storia dell’Africa 2007-08 all’Università di Pisa); nel 2009 I Popoli europei senza Stato. Viaggio attraverso le etnie dimenticate (Jouvence, Roma); nel 2011 La cosiddetta sinistra (Jouvence) e Imperialismo e rivoluzione latinoamericana (Aracne; testo del workshop Imperialismo e rivoluzione in America Latina 2010-11 all’Università di Pisa).

 

Note:
1. Giorgio, Napolitano, Una reazione morale contro l’indifferenza, in http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo= Discorso&key=2222, cfr. anche «Corriere della Sera», 6 giugno 2011.

 

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Riassunto del discorso del presidente siriano Bashar al-Asad (10 Gennaio 2012)

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Il presidente siriano Bashar Al Assad ha tenuto un discorso il 10 gennaio 2012 riguardante la situazione interna del Paese e della regione.
Di seguito i passaggi più importanti del discorso, tenuto nell’aula magna dell’Università di Damasco:
“Vi parlo oggi a distanza di 10 mesi dallo scoppio degli spiacevoli eventi che hanno colpito il nostro paese imponendogli nuove condizioni che rappresentano per noi tutti una prova per il nostro sentimento nazionale, che non riusciremo a superare se non con un duro lavoro e con intenzioni sincere.
La cospirazione straniera ormai non è più un tabù per nessuno, poichè ciò che era stato pianificato in segreto ha iniziato ad apparire sotto gli occhi di tutti ed è diventato chiaro. Le lacrime che hanno versato per le nostre vittime coloro che si dicono paladini della libertà e della democrazia non riusciranno a nascondere il ruolo che essi hanno avuto in questo spargimento di sangue, su cui hanno speculato.
Le maschere che questi personaggi indossavano sono ormai cadute dai loro volti e siamo ora in grado di disinnescare quel congegno virtuale che hanno creato per spingere i siriani verso un’illusione e, da lì, verso la caduta. Lo scopo di questo attacco mediatico senza precedenti era quello di farci arrivare ad uno stato di paura, che conduce alla paralisi della volontà e, di conseguenza, alla sconfitta.
Ci sono attualmente oltre sessanta canali televisivi nel mondo che lavorano contro la Siria, alcuni sono impegnati a destabilizzare il Paese dall’interno, altri lavorano per screditare l’immagine della Siria all’estero. L’obiettivo era di spingerci al collasso in modo da evitare di combattere vere battaglie e, nonostante abbiano fallito nel loro piano, non demordono.
Stiamo sopportando con pazienza una battaglia che non ha precedenti nella storia della Siria moderna e che non ci ha lasciato altro che la nostra tenacia e se questa lotta comporta grandi rischi e sfide cruciali, allora la vittoria è molto vicina, dal momento che siamo in grado di resistere, investendo sui nostri punti di forza, che sono tanti e sulla conoscenza dei punti deboli degli avversari, che sono ancora di più.
La sensibilità popolare, basata sulla realtà e non sull’allarmismo o sulla sottovalutazione dei fatti, nè sulla loro esagerazione o semplificazione, ha giocato un ruolo fondamentale nel portare alla luce il piano che era stato preparato e a restringerne il campo d’azione, in preparazione del suo totale fallimento. Non credo che una persona ragionevole possa oggi negare la presenza di questo piani che hanno portato le azioni di sabotaggio e terrorismo verso un altro livello di criminalità che mira a colpire gli ingegni, le competenze e le istituzioni, allo scopo di creare uno stato di panico e distruggere il morale, causando così uno stato di disperazione che aprirà la strada alla realizzazione di quanto è stato pianificato all’estero, ma questa volta per mano di agenti locali.
In seguito al fallimento di tutti gli altri tentativi, è ora naturale che venga giocata la carta dell’intervento straniero. Con “straniero” intendevamo qualcosa che veniva dall’esterno, ma purtroppo dobbiamo constatare che esso è piuttosto diventato una combinazione di elementi stranieri e arabi, e in molti casi la parte araba si è rivelata essere più ostile di quella straniera. Non voglio però generalizzare, dal momento che l’immagine non è così fosca, visto che non tutti i Paesi arabi adottano la stessa politica.
In realtà sono stato io stesso a suggerire l’iniziativa della missione degli osservatori durante l’incontro con una delegazione della Lega Araba qualche mese fa, pensando che dal momento che molte organizzazioni internazionali erano arrivate in Siria e si erano rese conto della realtà dei fatti. La risposta è stata positiva, anche perchè in questo modo avrebbero potuto personalmente constatare la situazione, che non sempre è positiva, soppesandone gli aspetti positivi e quelli negativi. Noi stessi non vogliamo altro che far sapere la verità, perciò da parte degli arabi era più opportuno che mandassero una delegazione che vedesse quanto accade in Siria.
Perchè è iniziata la missione araba? Gli stessi Paesi che dicono di interessarsi al popolo siriano all’inizio ci avevano consigliato di avviare le riforme. Ovviamente essi non hanno la minima conoscenza di cosa sia la democrazia e non hanno nessuna eredità in questo senso. Pensavano però che non saremmo andati avanti sul percorso delle riforme e perciò inizieranno ad usare, a livello internazionale, lo slogan secondo cui in Siria ci sarebbe una lotta interna fra lo stato che non vuole le riforme e il popolo che invece le chiede.
Quando invece abbiamo dato avvio alle riforme, sono rimasti confusi e hanno dunque spostato la loro attenzione sul tema della Lega Araba e della sua iniziativa. In realtà, se avessimo voluto seguire i consigli offertici da questi Paesi, saremmo dovuti tornare indietro di almeno un secolo e mezzo.
La Lega Araba è semplicemente un riflesso, uno specchio della miserevole situazione in cui si trova il mondo arabo: se ha fallito in sessant’anni nel fare in modo che si risolvesse il conflitto arabo, non dobbiamo stupirci che oggi il contesto generale sia rimasto lo stesso, senza nessun cambiamento se non quello verso una situazione ancora peggiore e ciò che prima avveniva in segreto ora avviene alla luce del sole e sotto lo slogan degli interessi della nazione.
Non vogliamo oggi scagliarci contro la Lega Araba poichè siamo una parte di essa, nonostante la fase di decadimento che sta attraversando il mondo arabo. Non dico questo perchè alcuni Paesi arabi hanno deciso di far uscire la Siria dalla Lega o di congelarne l’adesione, dato che il problema non ci riguarda nè da vicino nè da lontano, ma lo dico perchè ho notato la frustrazione popolare, che dovremmo far tornare nel suo quadro naturale.
Molti arabi sono convinti panarabisti, ma per la Siria questo punto non è solo uno slogan, rappresenta piuttosto un fatto concreto, dal momento che nessuno più della Siria ha supportato le questioni nazionali, pagandone il prezzo ancora oggi. E se alcuni Paesi hanno intenzione di sospendere la nostra identità araba presso la Lega, possiamo dire loro che possono sospendere l’identità araba della stessa Lega, ma non quella della Siria, perchè l’identità araba della Lega senza la Siria viene sospesa.
Non chiuderemo però la porta a nessuno sforzo arabo nel momento in cui rispetti la sovranità del nostro Paese e l’indipendenza delle nostre decisioni e sia nell’interesse del nostro popolo.
Non possiamo portare avanti un processo di riforma interna senza avere prima fatto i conti con la realtà dei fatti, che ci piaccia o meno. Per quanto riguarda la riforma interna stiamo lavorando su due fronti: la riforma politica e la lotta al terrorismo, che si è ampiamente diffuso recentemente in diverse zone della Siria.
C’è una relazione fra il processo di riforma e il piano ordito all’estero, per cui procedendo con il processo di riforma tale piano dovrebbe cessare di esistere. Posso dirvi però, sulla base di quanto sappiamo circa le discussioni che si stanno tenendo all’estero, soprattutto in occidente, rispetto a quanto sta avvenendo in Siria, che nessuno di loro è interessato nè al numero delle vittime nè alle riforme nè ai risultati raggiunti o che si raggiungeranno. Parlano invece della politica siriana e del cambiamento del comportamento siriano dall’inizio della rivolta ad oggi. La parte straniera del piano contro la Siria è contro le riforme che renderanno la Siria più forte.
Un altro punto importante è quello del rapporto fra le riforme e il terrorismo, quindi andando avanti con le riforme le azioni terroristiche dovrebbero fermarsi. Ma i terroristi, che uccidono e distruggono, si interessano della legge sul multipartitismo, o di quella sulle elezioni, o di quella sulle amministrazioni locali o altre? Le riforme ai terroristi non interessano e non gli impediscono di commettere i loro crimini. Qual è quindi l’elemento centrale?
La maggior parte del popolo siriano vuole le riforme ed è questo popolo colui che non ha infranto la legge, che non ha distrutto e che non ha ucciso. Per noi le riforme rappresentano un contesto naturale, perciò le abbiamo annunciate fin dal 2000.
Non ci sono ombrelli protettivi per nessuno, ma i crimini di omicidio richiedono prove. Alcuni pensano che non sia stato catturato nessuno di coloro che hanno perpetrato degli omicidi, intendo coloro che lavorano per lo stato, ma questo non è vero, dal momento che alcuni di loro sono stati arrestati. Dico sono alcuni poichè le prove disponibili che conducevano a queste persone erano limitate.
L’altro punto cruciale delle riforme è la costituzione. E’ stato varato il decreto per la formazione di una commissione che prepari una costituzione fissando un tempo limite di quattro mesi e penso che il loro lavoro sia arrivato alle fasi finali. La nuova costituzione sarà incentrata su un punto fondamentale, cioè il multipartitismo politico. Si è parlato solamente dell’articolo 8, ma abbiamo convenuto sul fatto che sia necessario cambiare tutta la costituzione, dal momento che esiste una correlazione fra le varie materie. La costituzione sarà basata sull’idea che la fonte dell’autorità è il popolo, in particolare attraverso le elezioni, e fra i principi basilari c’è quello dell’importanza del ruolo delle istituzioni e delle libertà del cittadino.
Con la crisi è arrivata una nuova carta politica e con la nuova costituzione e la nuova legge sul pluripartitismo sono apparse delle nuove forze politiche che dobbiamo tenere in considerazione. Qualcuno vuole che esse partecipino al governo con tutte le loro correnti, mentre altri si concentrano sull’opposizione. Tutte le parti politiche possono contribuire, sia quelle che sostengono il governo che quelle di centro o dell’opposizione, dal momento che il governo è il governo della nazione, non di un partito o di uno stato. E più amplieremo la partecipazione meglio sarà, sotto tutti gli aspetti e in generale per il sentimento nazionale.
Come stato o come partito o come autorità siamo pronti ad iniziare questo dialogo da domani senza nessun problema, ma una parte delle forze dell’opposizione non lo è. Alcuni vogliono portare avanti un dialogo con noi in segreto per guadagnarci qualcosa, mentre altri vogliono aspettare l’evolversi degli avvenimenti per decidere. Non aspetteremo però queste forze per iniziare un dialogo che sia solo di facciata e di propaganda, ma siamo pronti a farlo con chi è disponibile ad aprire dei negoziati pubblicamente.
La Siria ha bisogno di tutti i suoi figli più leali, a prescindere dalla loro appartenenza politica, e bisogna parlare della fase futura dal momento che siamo all’inizio di un nuovo anno. Alcuni parlano di una nuova Siria, ma io preferisco parlare di una Siria rinnovata.
In una situazione di guerra o di scontro i Paesi devono rivedere le loro priorità, e la massima priorità adesso è il ripristino della sicurezza di cui abbiamo goduto per decenni e che è sempre stata una nostra caratteristica, non solo nella nostra regione, ma a livello mondiale. Ciò non si potrà realizzare se non colpendo i terroristi assassini con pugno di ferro, dal momento che con il terrorismo non c’è tregua e non bisogna scendere a compromessi con chi usa le armi per creare divisioni e confusione, nè ci può essere tolleranza con chi terrorizza degli innocenti nè compromesso con chi collabora con lo straniero contro la propria patria e il proprio popolo.
Certo, ci sono dei casi che non vengono coronati dal successo, perciò penso che la fermezza e la risolutezza siano necessarie, anche se a volte perseverare nella tolleranza e nel perdono su basi chiare e in modo pacifico è necessario e bisogna andare avanti in questo modo senza fermarsi. Ho spiegato questo punto perchè alcuni non capiscono a cosa pensiamo quando variamo dei decreti di amnistia in queste condizioni di sicurezza: noi dialoghiamo con tutte le forze, ad eccezione di chi ha commesso dei crimini.
Posso riassumere tutto questo con una sola parola, e cioè la dignità siriana, a cui non possiamo rinunciare poiché è il bene più prezioso del popolo siriano e la nostra dignità è più forte dei loro eserciti e più preziosa delle loro ricchezze.
Tentano di far credere che la Siria sia isolata e continuano a ripetere questa parola. Il nostro punto di forza è la nostra posizione strategica e se vogliono imporci un embargo lo imporranno a tutta la regione, ma abbiamo anche altri punti di forza su cui fare affidamento.
La mia fiducia viene da voi e dagli uomini delle nostre forze armate, uomini di coscienza e di forte volontà, che esprimono la coscienza del popolo e ne tutelano i valori e le aspirazioni e offrono i loro sacrifici per darci sicurezza. Quindi li saluto a nome di tutti voi e di ogni cittadino onesto, sapendo che loro sono pronti a difendere l’onore della nazione e l’integrità del suo territorio e della sua gente.
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Il giornalista francese Gilles Jacquier è morto sotto il fuoco di bande armate a Homs

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Gilles Jacquier, reporter di guerra che lavorava per France 2 (inviato speciale), entrato di propria iniziativa in Siria per coprire gli eventi che destabilizzano il paese, è morto oggi a Homs, sotto il fuoco dei razzi dell'”Esercito libero siriano”. L’attacco ha ucciso otto persone e ferito altre 25, nessuna delle quali era armata, secondo le nostre fonti.
Il giorno prima, il giornalista ha lasciato il viaggio stampa organizzato su sua richiesta, dicendo che non era interessato agli incontri con i leader politici e religiosi che gli erano stati proposti. Aveva affittato un veicolo privato per spostarsi a volontà e sollevato da ogni responsabilità coloro che l’avevano aiutato ad avere il visto.
All’epoca dei fatti, il giornalista morto era assieme ai colleghi francesi e belgi, presso una manifestazione pro-governativa.
Un primo razzo, sparato da un lanciarazzi portatile, ha colpito i manifestanti, uccidendo otto persone. Dopo aver valutato la situazione salendo su una terrazza, Jacquier e il suo cameraman si avvicinarono ai cadaveri per filmarli, quando un secondo razzo è piombato nelle vicinanze, uccidendo il giornalista francese e ferendo gravemente il suo collega.
Questa tragedia ci ricorda che il popolo siriano ha di fronte gruppi armati che sparano indiscriminatamente sulla gente inerme per le strade di alcune città. Questa è una guerra non convenzionale e non una repressione armata di “manifestazioni pacifiche”, come hanno visto gli osservatori della Lega Araba.
Il signor Jacquier e colleghi hanno avuto un incontro con i membri dell’opposizione armata e quindi, si consideravano protetti da essa, ma i giornalisti non erano ancora nella zona che controllano e d erano quindi nella parte che attaccano indiscriminatamente. Avvelenati dalla propaganda atlantista, e avendo rifiutato di ascoltare la testimonianza delle vittime precedenti, hanno giudicato male la situazione e si sono inutilmente esposti.

In alto a sinistra dell’immagine, il punto di impatto del razzo che ha ucciso Gilles Jacquier. Caratteristica di un razzo termobarico, questo impatto ha fatto poco danno, a differenza di quella di un colpo di mortaio che scava un cratere. Tuttavia, l’esplosione può uccidere entro 10 metri, schiacciando gli organi interni delle vittime, spiegando così anche la mancanza di lesioni visibili. Poco dopo l’uccisione, l'”Osservatorio siriano per i diritti umani”, l’organo di propaganda delle bande armate con base a Londra, ha affermato che il gruppo di giornalisti era stato il bersaglio di “un colpo di mortaio” , dando spazio a dubbi sull’origine del tiro, perché l’esercito non usa questo tipo di lanciarazzi nelle sue attività per mantenere la sicurezza. Tuttavia, i filmati girati sul posto poco dopo l’attacco e trasmessi dalla televisione siriana, mostrano chiaramente l’impatto di un razzo termobarico di “RPG-7” sul marciapiede (non un buco da proiettile), mentre le vittime venivano evacuate, come le alette del razzo, recuperate dai residenti locali.

Abitante di Homs mostra alla telecamera della rete siriana al-Dounia le alette del razzo tipo “RPG-7” che ha causato la morte del reporter francese. Réseau Voltaire presenta le sue condoglianze alla famiglia e colleghi del signor Jacquier.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 

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L’ascesa della potenza iraniana e i nuovi equilibri

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Le manovre iraniane in corso nella regione del Golfo e nei dintorni sul fronte della disputa tra Teheran e Washington, porta una serie di segni importanti che indicano la natura dei cambiamenti che si verificano nella bilancia delle potenze internazionali e delle equazioni mutanti in tutto l’oriente islamico, soprattutto dopo le sconfitte che hanno colpito l’avventura dell’impero statunitense nel corso degli ultimi dieci anni, e le particolarità nella successiva fuga statunitense dall’Iraq.

In primo luogo, durante queste manovre, l’Iran ha mostrato le sue avanzate capacità militari, ha confermato la solidità della formazione strategica militare iraniana e la sua superiorità nelle forze di terra, mare e aria. Ciò che gli iraniani hanno mostrato, ha costituito un modello per la superpotenza militare globale, come hanno concluso gli esperti militari negli Stati Uniti, Europa e Israele. Sotto la copertura della propaganda che ha minimizzato l’importanza delle attrezzature militari iraniane viste nelle manovre, circoli occidentali e israeliani hanno espresso un serio timore sulla natura del messaggio strategico e qualitativi portato da queste manovre, in tutti i loro dettagli, in termini di gittata dei missili, qualità delle navi da guerra e competenza della forza aerea iraniana.

In secondo luogo, il successo più evidente e importante che è stato registrato da queste manovre e che hanno consacrato l’Iran come una superpotenza mondiale e regionale, si è visto nell’elevata competenza tecnica del comando iraniano, nonostante le superiori capacità di cui godono il Pentagono e la NATO. Inoltre, nonostante la presenza della 5° flotta statunitensi e la mobilitazione dei satelliti spia negli Stati del Golfo, l’Occidente non può ostacolare il lancio di uno dei missili iraniani che erano presenti nelle manovre, o ostacolare le manovre che si hanno avuto successo al 100%. A questo livello, il dirottamento dell’aereo da ricognizione statunitense ha dimostrato la capacità di infiltrare il Pentagono e intercettarne i codici da parte degli iraniani, mentre gli statunitensi non sono in grado di fare la stessa cosa verso i codici iraniani e il sistema di comunicazione utilizzato da tutte le sue forze e armi.
In terzo luogo, i risultati politici dati dallo spettacolo della potenza iraniana nella regione, hanno iniziato ad emergere e a materializzarsi consecutivamente, mentre gli statunitensi assegnavano al loro uomo in Turchia, cioè Ahmet Davutoglu, il compito di mediare con la Repubblica islamica dell’Iran, per riprendere i negoziati. Ma ciò che non è stato annunciato, è il contenuto dei colloqui durante i quali gli iraniani hanno rilasciato dichiarazioni forti, che riflettono i nuovi equilibri, sia nella loro risposta alle richieste e alle condizioni sui negoziati, sia per quanto riguarda la severa posizione nei confronti del coinvolgimento turco nella cospirazione contro la Siria. Nonostante i segni che annunciano una guerra su larga scala nella regione e la decisione statunitense di effettuare manovre congiunte con Israele, in risposta a quelle iraniane, la realtà si impone con il riconoscimento da analisti ed esperti che l’ascesa della superpotenza iraniana ha iniziato di governare le più importanti politiche degli USA, soprattutto in Medio Oriente.

 

Nuove analisi: l’Iran è in prima linea negli eventi, invece della Siria

L’Iran ha deciso di lanciare il suo contrattacco nel Golfo e nello Stretto di Hormuz su più fronti contemporaneamente, con una manovra molto intelligente e precisa. Ha inoltre aperto il dossier delle attività di arricchimento dell’uranio, annunciando che è in grado di raggiungere un livello di arricchimento del 20%, il che significava, di conseguenza, che non ha bisogno dell’accordo che è stato precedentemente offerto da Turchia e Brasile. L’Iran è stato anche in grado di attirare Washington e le capitali europee in una guerra finanziaria e petrolifera. Infatti, con Washington, ha aperto il fronte delle banche, che raggiunto la Cina spingendola a rilasciare un morbido avvertimento a Washington, affinché ritratti le sanzioni unilaterali. Con l’Europa, ha aperto il dossier del mercato petrolifero, minacciando di ostacolare il commercio del petrolio nella regione del Golfo, attraverso il controllo sullo stretto di Hormuz, spingendo Washington a minacciare di usare la forza e l’Iran a rispondere con le sue potenti manovre. Questo ha spinto Washington a ritirarsi con lo slogan che non è alla ricerca di problemi con nessuno.

Questa cortesia statunitense è stata accompagnata da una escalation europea e da messaggi turchi. Da un lato, la Turchia ha ribadito la sua offerta di riprendere la sua mediazione sul dossier nucleare, dopo il doppio annuncio iraniano sulle attività di arricchimento e la disponibilità a negoziare, mentre d’altra parte, l’Europa ha deciso di interrompere l’importazione del petrolio iraniano, senza fissare delle date precise.

Ciò significa:
Che l’Iran ha organizzato è un’alternativa al mercato petrolifero europeo – e in particolare la Grecia – grazie alla Cina, ma ha anche organizzato le sue alternative bancarie tramite le banche cinesi.
Che l’Iran è riuscito a torcere il braccio di Washington e affronta la caparbietà europea con un misto di diplomazia e spettacolo di potenza. L’Iran ha accettato di concedere un ruolo alla Turchia nei negoziati, a condizione che cambiasse la sua posizione nei confronti della crisi siriana, come è stato affermato dal capo del comitato di sicurezza del parlamento iraniano.
Che l’Iran è riuscito a sottrarre i riflettori internazionali e alla crisi siriana, costituendo un contrattacco i cui segni hanni iniziato a emergere in parallelo al ritiro statunitense dall’Iraq.

 

Nuove analisi: il fronte della bancarotta e le bande terroristiche di al-Midan

Gli incidenti siriani hanno offerto un quadro più realistico dei movimenti delle lotte interne all’opposizione siriana, il cui stato di degrado e di decadenza del discorso tra le sue varie parti e gruppi, viene affrontato con disprezzo da tutti i circoli. Infatti, il mancato raggiungimento di un accordo su un documento congiunto tra il Consiglio di Istanbul e il comitato di coordinamento ha rivelato la dimensione del degrado politico che incide sulla struttura dei movimenti dell’opposizione siriana, e la portata dei loro legami con l’alleanza coloniale, soprattutto nel caso del consiglio di Istanbul, il cui programma si è limitato agli appelli a una guerra globale contro la Siria, al fine di imporre la famosa agenda di Colin Powell e garantire l’egemonia di Israele nella regione.

Inoltre, ha dimostrato il fallimento della alleanza regionale occidentale, che ospita queste componente per ottenere ciò che i pianificatori statunitensi e gli esecutori del Qatar e della Turchia, pensavano costituisse una struttura politica che rappresentasse un coeso fronte locale, nel piano per distruggere la resistenza siriana, o anche un’autorità alternative.

Dopo di che l’insistenza sull’iniziativa araba, che costituiva la caratteristica principale della retorica politica delle opposizioni, questi movimenti di opposizione sono rimasti sconvolti nel vedere la sottomissione alle condizioni del comando siriano e la firma del protocollo di cooperazione tra lo Stato siriano e la Lega araba. E invece di accogliere questo passo e completare l’iniziativa con il lancio del dialogo nazionale, il consiglio di Istanbul ha lanciato una campagna di calunnie contro l’iniziativa, la Lega araba e il team degli osservatori, accusandoli così di aver cospirato con le autorità siriane. Questo è stato il risultato pratico della determinazione statunitense nel voler contrastare l’iniziativa araba e aprire le porte all’internazionalizzazione, i cui punti principali sono stati rivelati dalle raccomandazioni dei pianificatori statunitensi di Washington.

Lo stato siriano è riuscito a guadagnarsi il riconoscimento per la sua cooperazione con la missione della Lega ed è stato in grado di confermare la realtà delle strade siriane e il resoconto ufficiale sulla presenza di proteste limitate – compresi dei partigiani dell’opposizione – nelle campagne delle province centrali, in parallelo alla presenza di bande armate affiliate all’opposizione e al consiglio di Istanbul, ma soprattutto con il gruppo dei Fratelli Musulmani e i gruppi takfiri guidati da Adnan al-Arour, dell’Arabia Saudita.

Le operazioni terroristiche e gli attentati suicidi mirano a compensare l’incapacità dei movimenti di opposizione – con tutte le loro formazioni politiche, organizzative e popolari – ad ampliare la portata geografica delle proteste, a causa della grande assenza popolare nella partecipazione a queste attività, il cui slogan si concentra sull’intervento straniero, mentre ignorano completamente le riforme.

Gli ultimi mesi alcuni degli eventi siriani hanno eliminato molte maschere e dimostrato le invenzioni dei media. Di conseguenza, i cittadini siriani stanno vivendo una realtà, cioè quella del sostegno a favore dello stato nazionale e dell’esercito siriano, nell’imporre la stabilità e nel liquidare i pozzi del terrorismo e del takfirismo, in un momento in cui la riforma è scomparsa dalla retorica del movimenti di un’opposizione in conflitto, ed è presente solo all’ordine del giorno del presidente Bashar al-Assad, che è determinato a modernizzare lo Stato siriano basandosi sull’opzione dell’indipendenza, della resistenza e del pan-arabismo.

 

Nuove analisi: le piccole guerre di Petraeus e l’uso delle fazioni del takfirismo

E’ noto, in base agli sviluppi in corso nella tormentata regione, che è stata soprannominata dai pianificatori statunitensi Grande Medio Oriente, decenni fa, che le piccole guerre la cui gestione è stata assegnata alla CIA, prima di essere diretta dal generale David Petraeus, saranno il contenuto principale del piano di esaurimento degli USA, a cui il Pentagono fa affidamento come alternativa alle grandi guerre perdute, che hanno portato a catastrofi strategiche ed economiche, dopo quello che è successo in Iraq e Afghanistan negli ultimi anni. Queste piccole guerre si basano sulla riattivazione dei gruppi islamici del takfirismo, oltre all’alleanza con una nuova classe dirigente che emerge dalla organizzazione internazionale dei Fratelli Musulmani.

In questo contesto, è chiaramente basato sugli elementi del piano di Petraeus di gestione delle guerre mobili, che si basa sull’attivazione di tutte le reti armate del takfirismo nella regione araba e nel mondo islamico, al fine di costruire un muro settario di fronte alla crescente potenza iraniana e impedire la diffusione della resistenza e della cultura di liberazione, che costituisce il contenuto principale della retorica islamica iraniana, e dalla posizione nazionalista sostenuta da Hezbollah e dalla Siria. Mira inoltre a soffocare Hamas attraverso l’espansione del ruolo dei fondamentalisti e dei takfiri sull’arena palestinese.

I pianificatori statunitensi assegnano agli estremisti delle istituzioni wahhabite saudite la sponsorizzazione dei movimenti del takfirismo e il loro ruolo. Hanno così coperto di soldi il partito salafita al-Nour in Egitto, come stanno facendo nei confronti dei gruppi takfiristi in Siria, Iraq e Libano, dopo che hanno stabilito delle organizzazioni sul territorio libanese da tempo, per effettuare azioni terroristiche nel corso degli ultimi due decenni, cioè i gruppi Osbat al-Ansar, Jund al-Sham e Fatah al-Islam. Il lavoro di questi gruppi takfiristi, con tutte le loro sette estremiste ed etniciste in tutto il Grande Medio Oriente, sarà anche di accogliere i gruppi armati terroristici che gli statunitensi usano per colpire la sicurezza interna iraniana, dopo i segni di stanchezza e debolezza che hanno cominciato a mostrare le bande dell’organizzazione dei Mujahedin e-Khalq.

Di conseguenza, il blocco dei media che è dedicato all’interferenza negli affari iraniani, destina parte delle proprie attività a stimolare e mobilitare i gruppi etnicisti all’interno del Paese e metterli contro le autorità iraniane. Per quanto riguarda le fazioni takfiriste, affiliate ad al-Qaida e guidata da Bandar Bin Sultan e i gruppi wahabiti all’interno di Siria, Libano e Iraq, il loro compito strategico sarà quello di evitare la stabilità in Siria, per mantenere il paese in una crescente dal crisi attraverso l’assassinio e il terrorismo, e di minacciare la stabilità del Libano e le formazioni politiche che stanno abbracciando la resistenza, trasformando alcune regioni libanesi in basi per il lancio di azioni di sabotaggio contro la Siria. In Iraq, la missione di queste fazioni sarà quello di impedire l’insorgere di un clima politico e di sicurezza che permetterebbe la formazione di un’autorità incaricata di garantire il ritorno dell’Iraq recuperato al suo ambiente arabo e islamico. Infatti, i pianificatori statunitensi e israeliani temono che il riavvicinamento siro-iracheno-iraniano e l’evoluzione del legame verso un nuovo modello, costituirà una minaccia per l’esistenza di Israele e il suo ruolo.

Le piccole guerre di Petraeus vengono gestite da Washington, Riyadh e Doha tramite i gruppi takfiristi e le loro fazioni armate, mentre il test decisivo per questo piano si sta svolgendo in territorio siriano, dove la vittoria dello stato nazionale sul piano terroristico segnerà una svolta nella direzione opposta, e registrerà ancora una volta il fallimento degli USA.

 

Il dossier arabo: la Siria

La missione degli osservatori della Lega Araba ha continuato il suo tour nelle province e i suoi incontri con i cittadini, in un momento in cui i gruppi armati terroristici procedono con i loro atti di violenza e di sabotaggio, l’ultimo dei quali è l’esplosione terroristica attuata da un attentatore suicida nel quartiere al-Midan a Damasco, il Venerdì mattina, portando al martirio di 26 persone e il ferimento di 63 tra cui civili ed elementi della sicurezza.

Il Ministero dell’Interno ha indicato in un comunicato, che erano in corso indagini per scoprire le implicazioni di questo atto terroristico e arrestare i terroristi che minacciano i cittadini. Il ministero ha assicurato che colpirà con un pugno di ferro tutti coloro che osano manomettere la sicurezza del Paese e dei cittadini, invitando i cittadini a esercitare il loro ruolo e a cooperare con gli organi di sicurezza segnalando eventuali attività sospette e fornendo tutte le informazioni disponibili, per quanto riguarda i movimenti dei terroristi.

Il segretario generale della Lega Araba, Nabil al-Arabi, ha indicato che Damasco ha rilasciato migliaia di detenuti e ha tolto i suoi veicoli militari dalle strade. Ha aggiunto, tuttavia, che gli assassini erano in corso e che sparatorie e cecchini erano ancora presenti nelle città. Ha così continuato: “E’ difficile dire chi sta sparando contro chi.” Da parte sua, l’ambasciatore Adnan al-Khodeir, il capo dell’ufficio operazioni degli osservatori arabi, ha affermato che nessuno avrebbe potuto determinare l’entità del successo della missione, per ora, aggiungendo che questo potrebbe essere determinato solo dal consiglio della Lega Araba. Il Vice Segretario Generale della Lega Araba, l’ambasciatore Ahmad Bin Helli, ha dichiarato: “E’ stato deciso di tenere le riunioni del comitato ministeriale di Domenica, per esaminare il rapporto preliminare del generale Mohammad Ahmad al-Dabi, il capo della missione degli osservatori arabi in Siria, per vedere quello che questa squadra ha rilevato sul campo dopo più di una settimana di osservazione.” D’altra parte, il portavoce del Dipartimento di Stato statunitense, Victoria Nuland, ha detto che Washington era preoccupata per il fatto che il regime siriano non ha soddisfatto tutti gli impegni assunti nei confronti della Lega Araba, circa nove settimane fa, ossia il fatto che la violenza non si è fermata. Ma Damasco ha risposto alle dichiarazioni della Nuland, come portavoce del ministero degli Esteri siriano Jihad Makdessi descrivendo queste accuse come nulle ed ha assicurato che appoggia la Lega Araba il cui lavoro la Nuland afferma di sostenere. Ha quindi sottolineato che queste dichiarazioni costituiscono una blanda interferenza nel lavoro della Lega e nella sovranità dei suoi Stati membri.

 

Iran

Martedì scorso, l’Iran ha minacciato di adottare misure nel caso in cui la Marina statunitense cerchi di inviare una portaerei nel Golfo, in un momento in cui il dipartimento della difesa USA, cioè il Pentagono, ha annunciato che gli Stati Uniti sosterranno la sua presenza nelle acque del Golfo, come aveva fatto per decenni.

D’altra parte, il ministro degli esteri iraniano Ali-Akbar Salehi ha annunciato, in una conferenza stampa congiunta con il suo omologo turco Ahmet Davutoglu a Teheran, la volontà dell’Iran di riprendere i colloqui sul nucleare in Turchia con il gruppo 5+1. Da parte sua, Davutoglu ha detto che ha trasmesso un messaggio di Ashton ai funzionari iraniani, dicendo che era in attesa della risposta iraniana al messaggio che aveva inviato ad ottobre e in cui assicurava che le superpotenze sono pronte a riprendere i negoziati. Ha aggiunto: “Ciò che è importante è che i negoziati continuino e che la Turchia sostenga ogni passo positivo in questa direzione.”

 

Yemen

Il governo di transizione yemenita ha concordato in linea di principio nel concedere al presidente Ali Abdullah Saleh e coloro che hanno lavorato con lui per tutta questi anni, la piena immunità contro processi giuridici e legali all’interno ed all’esterno dello Yemen.

Nel frattempo, delle dispute scoppiate tra il presidente Saleh e il suo vice Abed Rabo Mansur Hadi, a seguito di accuse di tradimento mosse dal primo al secondo. Questo ha spinto Hadi a minacciare di lasciare il paese se le pressioni esercitate su di lui da Saleh e dai suoi uomini non si fermano.

 

Egitto

La procura egiziana ha chiesto al tribunale criminale del Cairo la condanna a morte per impiccagione del deposto presidente egiziano Hosni Mubarak e di altri sette accusati di essere implicati nell’uccisione di manifestanti. Ha inoltre chiesto una condanna a 15 anni di carcere contro i figli Gamal e Alaa, e al latitante uomo d’affari Hussein Salem, accusati di aver tratto profitti illeciti e di spreco di fondi pubblici.

D’altra parte, i risultati preliminari delle elezioni dell’Assemblea del popolo ha rivelato un vantaggio dai movimenti islamici, in parallelo ad un notevole progresso registrato dal Partito al-Wafd in alcune circoscrizioni, e un netto ritiro del blocco egiziano che è arrivato terzo.

 

Dossier israeliano

Il caso degli hacker sauditi che sono riusciti a rubare i dati relativi alle carte di credito di circa 400.000 israeliani, e la pubblicazione di alcuni dettagli circa i proprietari di queste carte, compresi i numeri delle loro carte, i loro indirizzi, nomi e numeri di telefono, occupa i titoli principali dei giornali israeliani di questa settimana. I giornali hanno anche affrontato le manovre che sono state e saranno condotta da Israele, dopo che la marina israeliana ha effettuato in modo sorprendente una massiccia manovra navale, in una base navale israeliana. Si parla anche di una manovra che presta sarà effettuata da Israele e dagli Stati Uniti per emulare uno scenario di difesa contro un attacco missilistico. Yediot Aharonot ha detto, in questo contesto, che l’esercito israeliano ha effettuato esercitazioni al confine con l’Egitto e Gaza, emulando lo scenario di un rapimento di soldati, aggiungendo che tutte queste attività sono spinte dal timori estremi prevalenti nell’esercito israeliano in merito al rapimento possibile di un altro soldato, come era accaduto nel caso del soldato Gilad Shalit.

Nel frattempo, i giornali affrontato diverse questioni importanti, come la decisione del comitato israeliano sull’energia nucleare – in coordinamento con il cosiddetto Comando del Fronte Interno – per fermare le attività nucleari dei reattori nucleari di Israele nel caso in cui il fronte interno dovesse essere sottoposti a un attacco missilistico. I giornali hanno anche parlato della riunione che si è svolta tra l’alto negoziatore palestinese Saeb Erekat e il procuratore israeliano Yitzhak Molcho, che è stata percepita da Israele come parte del contesto dei negoziati diretti con i palestinesi.

Yediot Aharonot ha anche menzionato che ci sono grandi paure nell’esercito israeliano, in relazione al perseguimento possibile di elementi dell’esercito israeliano da parte di Hezbollah e delle altre organizzazioni, attraverso i social network, soprattutto su Facebook.

 

Dossier libanese

Il ministro della Difesa Fayez Ghosn ha assicurato ancora una volta, nelle dichiarazioni alla OTV: “Abbiamo informazioni chiare e l’esercito ha fatto irruzione a Erssal, alla ricerca di Hamza Karakoz. Ho messo in guardia i libanesi contro la presenza di al-Qaida perché io sono a capo di un’istituzione che è responsabile della sicurezza dei cittadini. E’ nostro dovere di politici e funzionari dire che il confine è infiltrato da alcuni estremisti, tra cui elementi di al-Qaida, ed è nostro dovere non nascondere le informazioni in modo che le cose non ci esplodano in faccia”.

Da parte sua, il capo del movimento al-Marada deputato Suleiman Franjieh, ha assicurato nel corso di una conferenza stampa: “Le dichiarazioni del ministro della difesa Fayez Ghosn, per quanto riguarda la presenza di elementi di al-Qaida in Libano, sono basate sui rapporti della sicurezza, dei militari e dell’intelligence dell’esercito libanese.” Ha paragonato la campagna mediatica contro Ghosn alle campagne del Movimento Futuro dopo il martirio del primo ministro Rafik al-Hariri, dicendo: “Coloro che commerciavano con il sangue del Primo Ministro martire, non esiteranno a commercio con il sangue del popolo di Erssal e Anjar Majdel, tra gli altri, perché un affarista rimane un affarista.”
L’ex primo ministro Saad al-Hariri ha risposto su Twitter dicendo: “Non è utile trasformare questo problema in un problema tra il popolo e l’esercito. Il problema risiede nelle affermazioni false che sono state negate dai ministri nel governo”.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 

Fonte: Réseau Voltaire

 

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Quali sono le opzioni serbe in Kosovo e Metohija?

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Dopo la Dichiarazione di indipendenza da parte del Governo albanese di Pristina il 17 febbraio 2008, i serbi del Nord del Kosovo e Metohija effettuarono una sorta di contro-secessione dalle strutture amministrative del neo-Stato, riconosciuto oggi da circa un’ottantina di Stati su 192 presenti alle Nazioni Unite.

Questo Stato parallelo serbo è stato, già dalla fine della guerra del 1999, incoraggiato da Belgrado e ha reso la sua minoranza nel Kosmet autonoma dalle strutture politiche albanesi nei settori della giustizia, dell’istruzione e della sanità.

Proprio il tentativo di rimuovere questa situazione de facto, sulla spinta delle stesse istituzioni internazionali che per tanti anni tollerarono invece l’analogo e precedente Stato parallelo che gli albanesi del Kosovo avevano messo in piedi durante l’era Milosevic, ha provocato nei mesi scorsi duri scontri tra la minoranza serba del Nord e la NATO (che occupa questa provincia ormai da 12 anni).

Alcuni esponenti in vista del Governo di Belgrado, in particolare il Ministro socialista Ivica Dacic, hanno evocato in alcune occasioni una possibile spartizione con gli albanesi del Kosovo e Metohija e si sono spinti durante le tensioni più drammatiche a parlare addirittura di una possibile guerra.

Dal canto loro, l’Unione Europea (divisa comunque al suo interno perché non tutti i suoi aderenti riconoscono l’indipendenza del Kosovo), gli Stati Uniti, la NATO e le autorità albanesi di Pristina hanno più volte ribadito che non avrebbero consentito ancora a lungo una “situazione di anarchia” nel Nord del Kosovo, tornando però poi al tavolo delle trattative con il Governo di Belgrado per ottenere almeno un parziale smantellamento delle barricate erette dai serbi e la riapertura di alcuni valichi di frontiera.

Certamente i serbi del Kosovo e Metohija si sentono ormai abbandonati dalla madrepatria, al punto che almeno 50.000 di loro avrebbero firmato una petizione per ottenere la cittadinanza russa e consegnato le firme all’Ambasciatore russo in Serbia.

Questa iniziativa, dal sapore volutamente provocatorio, potrebbe però paradossalmente rivelarsi utile alla loro causa.

In base alla Risoluzione ONU 1244 tuttora in vigore, tanto che la Serbia nel Nord del Kosovo riconosce solo i 6 punti fissati recentemente dal piano adottato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e non la supremazia di ICO (l’Ufficio Civile Internazionale guidato da Peter Feith e incaricato di applicare il Piano Ahtisaari), i soldati della Federazione Russa potrebbero rientrare in Kosovo e Metohija in qualsiasi momento, a maggior ragione se si trattasse di difendere propri cittadini.

Ecco così che se l’attuale Governo di Belgrado rinunciasse ad un sterile quanto propagandistico orgoglio nazionale, irritato dall’iniziativa dei serbi del Nord, troverebbe nel diritto internazionale la chiave per una possibile strategia utile a tutelare gli interessi della minoranza serba.

La presenza dei soldati di Mosca garantirebbe un discreto riequilibrio della forza internazionale di pace, schieratasi in Kosmet dopo l’aggressione militare del 1999 e oggi troppo vicina agli interessi dell’Alleanza Atlantica, ribadendo inoltre la politica di neutralità militare proclamata dalla Serbia negli ultimi anni.

Già oggi la Russia invia ai serbi del Kosovo e Metohija tonnellate di aiuti umanitari e dispone di una forza di elicotteristi di pronto intervento nella vicina Nis, ufficialmente per fronteggiare “le situazione di emergenza e le calamità”.

L’altra opzione a disposizione del Governo di Belgrado e sempre conforme alla Risoluzione ONU 1244, consiste nella possibilità di far rientrare piccole unità del proprio esercito sia al Nord, quale forza di contrapposizione a Kosovska Mitrovica, sia al Sud, a protezione dei propri monasteri cristiano-ortodossi nella Metohija.

La Serbia deve però scontrarsi con due ostacoli di non poco conto, prima di intraprendere iniziative rischiose, seppur conformi al diritto internazionale.

La prima: se non riconosce l’indipendenza del Kosovo, modalità che potrebbe avvenire anche solo togliendo il residuo sostegno alla sua minoranza nel Nord e alle strutture parallele serbe, la Serbia rischia di non essere ammessa tra i Paesi candidati ad entrare nell’Unione Europea (come fatto ventilare più volte dalla Germania).

La seconda: un ritorno militare russo-serbo nel Kosovo e Metohija potrebbe scatenare un effetto domino nei Balcani, le cui conseguenze maggiori verrebbero pagate proprio dalla Serbia, peraltro attualmente poco attrezzata per condurre un conflitto su vasta scala.

Le minacce albanesi nel sud della Serbia, nella Valle di Presevo, Bujanovac e Medvedevo e il ricatto di un certo “integralismo islamico” in salsa occidentale nel Sangiaccato, consigliano per ora a Belgrado una certa prudenza e di puntare sulla carta diplomatica per far valere le proprie ragioni. Quest’ultima si basa soprattutto sulle pesanti “rivelazioni” contenute nel rapporto di Dick Marty, relatore per i diritti umani al Consiglio d’Europa.

Aldilà di qualche concessione al politicamente corretto, questo documento ribadisce alcuni fatti che si possono definire “sconcertanti” in relazione allo spirito della missione internazionale di “pace e di stabilizzazione” del Kosmet:
1) L’incapacità della KFOR ( in pratica della NATO) ad assicurare l’ordine pubblico in Kosovo e Metohija (una provincia grande quanto l’Abruzzo), con centinaia di migliaia di persone appartenenti alle varie minoranze costrette a scappare;
2) La distruzione delle prove dei crimini contro i serbi (prelevamento di organi che venivano poi rivenduti sul mercato internazionale) da parte dell’Ufficio di Carla del Ponte quando era Procuratore Capo del Tribunale dell’Aja;
3) I dati delle persone uccise e scomparse tra il 1998 e il 1999, che confermano come durante la guerra in Kosovo e Metohija fu combattuta una dura battaglia tra la polizia e l’esercito serbi e gli insorti albanesi (UCK) ma nessun “genocidio” o “pulizia etnica” vennero compiuti per mano delle forze militari di Belgrado;
4) Il fatto che l’Albania non conceda l’utilizzo del proprio territorio per condurre le indagini sui crimini contro i cittadini serbi rapiti ed espiantati, senza che per questo il Governo di Tirana riceva alcun tipo di sanzione.
5) L’importanza del peso regionale degli Stati Uniti (con l’imponente base militare di Camp Bondsteel vicino ad Urosevac e al confine tra Kosovo e Macedonia) e soprattutto del ruolo determinante di Washington nel rilanciare la guerriglia dell’UCK nel 1998, quando ancora la guerra poteva essere evitata.
6) L’azione di consulenza e di addestramento dei servizi segreti occidentali (con l’omissione però di quelli israeliani) al “Gruppo di Drenica”, il gruppo criminale dell’UCK impiegato nel rapimento dei serbi ai quali venivano prelevati gli organi poi rivenduti.
7) La mancata presentazione delle prove dei crimini contro i serbi da parte degli servizi segreti occidentali, che le possiedono ma non le forniscono agli inquirenti.
8 ) Il coinvolgimento nei crimini di stretti collaboratori di Hashim Thaci, che hanno eliminato fisicamente o intimidito i possibili testimoni.

In questo scenario, la designazione de giudice statunitense John Clint Williamson non promette particolari progressi nelle indagini e il Rapporto Marty, con le sue sconvolgenti verità rischia di essere solo un’arma di ricatto in mano alle lobby di Londra e Washington nel caso gli albanesi del Kosovo dovessero diventare meno “malleabili”.

Cosa può sperare allora la Serbia e quale unica carta le rimane da giocare per ottenere una parziale giustizia? Quella di un cambiamento dei rapporti di forza internazionali, già ravvisabile in una Dichiarazione ufficiale del dicembre 2009 di Russia, Cina e India che chiedono di “ridiscutere” lo status del Kosovo dopo la sua unilaterale dichiarazione d’indipendenza.

Il ritorno di Vladimir Putin alla guida del Cremlino, vista la peculiarità di questo “conflitto congelato” che interessa allo stesso tempo le tensioni russo-statunitensi, la tenuta politica dell’Europa, la stabilità dei Balcani e le relazioni tra il mondo cristiano e quello islamico, potrebbe segnare una svolta rispetto all’atteggiamento abbastanza passivo di Mosca sulle recenti iniziative della NATO in Libia e consentire alla Serbia una maggiore libertà di azione.

 

*Stefano Vernole è redattore di Eurasia

 

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Romania: colpo di Stato “tecnico” in vista?

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È il quarto giorno di proteste in Romania. Senza pressoché soluzione di continuità, duemila romeni stanno protestando maniera forte e veemente contro il presidente della Repubblica Traian Basescu e contro il capo del governo Emil Boc. Uomini, donne, vecchi, giovani e studenti sono in piazza esasperati dalla gravissima situazione economica in cui versa, ormai da diversi mesi, il Paese carpatico-danubiano. Nella sera di domenica 15 gennaio, sino ad ora il giorno più incandescente, vi sono stati scontri tra polizia e manifestanti, che hanno lasciato sul terreno decine feriti, taluni anche gravi. Molti anche gli arresti. Ferito anche un giornalista di Antena 3, televisione non certo vicina all’attuale presidenza. Le violenze da parte di alcuni manifestanti (lancio di pietre e bombe incendiarie sulle forze dell’ordine) sono minoritarie, diremmo numericamente risibili rispetto a una massa per la più parte pacifica. Intanto il ministro dell’Interno Traian Igas nella serata del 15 gennaio ha convocato la cellula di emergenza. Naturalmente moltissimi commentatori, anche di un certo prestigio, hanno parlato di «metodi comunisti» da parte dell’attuale governo nel trattare i manifestanti e hanno evocato le repressioni di Ceausescu. Le ultime notizie pervenute parlano anche di un ordigno esploso in una non meglio precisata zona del nord della Romania, che però non pare esser direttamente collegato alla manifestazioni di piazza.

Da parte sua Traian Basescu non è ancora intervenuto in nessun modo, mentre il capo del governo Emil Boc ha fatto visita in ospedale ai poliziotti feriti. Un chiaro segnale di solidarietà e della volontà di non andarsene.

La miccia è stata accesa negli scorsi giorni, dopo che il presidente Basescu ha deciso di togliere l’incarico di sottosegretario alla sanità a Raed Arafat in seguito a dure polemiche tra i due.

Arafat è un medico di origine siriana (è nato a Damasco nel 1964), che, dopo un’infanzia e una giovinezza trascorse a Nablus in Palestina, è emigrato all’età di sedici anni in Romania per studiarvi medicina, specializzandosi in medicina d’urgenza come anestesista. Molti erano e sono infatti gli arabi che nel corso degli anni sono arrivati in Romania per studiare medicina, sia per via dei rapporti cordiali tra il regime nazionalcomunista di Bucarest e il mondo arabo, palestinese in particolare, sia perché la Romania era l’unico Paese in cui le università offrissero e offrano un sistema didattico somministrato sia in inglese sia in francese, lingue assai diffuse e conosciute nel mondo arabo.

Nel settembre 1990 Arafat fondò lo Smurd, ossia Serviciul Mobil de Urgenta Reanimare si Descarcerare, un innovativo sistema di medicina d’urgenza che in questi decenni ha salvato molte vite. Per i suoi meriti sul campo, il 23 agosto 2007 l’allora capo del governo romeno, Calin Popescu Tariceanu, lo aveva nominato, come detto poc’anzi, sottosegretario alla Sanità.

Lo scontro tra Basescu e Arafat nasce da una proposta di legge del governo che prevedeva la privatizzazione massiccia del sistema sanitario nazionale, una proposta che ha visto la netta opposizione di Arafat e della popolazione romena, già in condizioni economiche critiche, le quali, nel caso in cui quella proposta fosse andata o vada in porto, si aggraverebbero ancor di più. Oggi in Romania uno dei problemi più gravi – e che lo scrivente potrebbe testimoniare direttamente – è l’alto livello di corruzione presente nelle strutture sanitarie: in moltissimi casi, anche disperati, è difficile esser curati se non si provvede al pagamento di qualche infermiere o del medico di turno. Va ancora evidenziato che a metter mano alla stesura di questa legge è stato l’«American Chamber of Commerce in Romania» (AmCham Romania: proprio questa la denominazione completa). Come leggiamo nel sito ufficiale, l’AmCham Romania è «un’organizzazione no profit e apolitica che promuove interessi commerciali ed economici in Romania», vale a dire è una delle agenzie colonialiste americane nel Paese carpatico. L’AmCham Romania, leggiamo ancora nel profilo ufficiale, è stata «fondata nel 1993 da investitori presenti in Romania» ed è una delle «105 AmCham dei 91 Paesi affiliati alla Camera di Commercio statunitense, con sede a Washington, e membro del Consiglio europeo delle Camere di Commercio americane».

Che la Romania, dal 1989, sia diventata una delle colonie americane in Europa dell’Est è dato che solo i più ciechi non riescono a vedere. Le ricchezze romene sono un boccone ghiotto per lo sciacallo a stelle e strisce, il quale non se lo vuol far di certo scappare. Inoltre il Paese carpatico-danubiano è collocato in una posizione geopolitica cruciale e strategica per gli interessi americani in questa parte di mondo. A quanto ci dicono le nostre fonti, da anni è iniziato un esproprio di materie prime e pregiate, tra cui grano (la Romania è il granaio d’Europa da secoli), petrolio e un altro materiale il cui uso è ben noto: l’uranio. Accanto all’impossessamento c’è la distruzione: molti campi coltivati sono stati abbandonati e i pozzi petroliferi – che avrebbero assicurato alla Romania un’autonomia, almeno parziale, dalle multinazionali sostenitrici dei “bombardamenti umanitari” – sono stati lasciati al loro destino, quindi inutilizzati. Inoltre gli americani hanno iniziato la costruzione di un’autostrada che taglierà in due la Transilvania e che collegherà Pristina (capitale del Kosovo…) e Sofia, città in cui sono presenti basi militari americane. Combinazione: l’autostrada attraverserà zone fitte di miniere d’oro e del suddetto uranio.

Su NeamInvest, sito d’informazione finanziaria con sede a Piatra Neamt (Moldavia settentrionale), leggiamo le rivendicazioni di tal Sergiu Gabureac, persona presente tra i dimostranti di Bucarest. Gabureac parla di Basescu come di «un uomo malato di potere» (un om bolnav de putere), circondato da «ministri incolti e incapaci» (inculti si neprofesionisti). A causa di questa e di molte altre cose, la Romania è diventata una delle «pecore nere dell’Unione Europea» (am ajuns una dintre oile negre ale Uniunii Europene). Gabureac, dopo le critiche, passa alle rivendicazioni: stabiliamo anzitutto che cosa desideriamo tutti (mai intai stabilim ce dorim cu totii: notare per inciso il plurale. Gabureac parla a nome di tutti i manifestanti, di tutti i romeni, di tutti chi?). Insieme alle dimissioni di Basescu e Boc e alle elezioni anticipate per marzo o aprile 2012, Gabureac chiede un governo di tecnocrati (guvern de tehnocrati).

Dunque la nota faccenda si ripete. Il discredito di una classe politica certo non illuminata ma non per questo perversa, l’ingerenza massiva e subdola degli Stati Uniti, gli improvvisi eccessi di violenza dei manifestanti che gettano discredito sulla maggioranza silenziosa e pacifica di dimostranti e tutta una serie di altri elementi sono l’indice del fatto che su questo genere di manifestazioni grava il dubbio che non siano del tutto spontanee, anche se – va ripetuto – la situazione economica della Romania è davvero grave e le manifestazioni possano apparire del tutto giustificate. Da domandarsi infine, e prima che ci pervengano altre informazioni, se duemila persone in piazza siano un numero rappresentativo e sufficiente per gridare all’allarme.

 

*Luca Bistolfi è esperto di Europa orientale

 

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Bashar al-Assad concede l’amnistia

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Il Presidente della Repubblica Araba Siriana, Bashar Al Assad, ha varato il decreto legislativo n° 10 del 2012 che concede l’amnistia generale per i crimini che sono stati commessi sull’onda dei fatti verificatisi dal 15/3/2011 fino alla data del decreto.
Mohamad Marwan Al Louji, procuratore generale di Damasco, ha affermato che il decreto intende rafforzare e approfondire l’unità nazionale, dando la possibilità a chi è stato coinvolto nelle dimostrazioni dal 15 marzo ad oggi, senza aver però commesso crimini di sangue o di sabotaggio, di tornare alla legalità.
Parlando con la TV siriana, Al Louji ha aggiunto che il decreto è il proficuo risultato del discorso tenuto dal presidente nei giorni scorsi, nel quale sono stati esposti i recenti fatti e la cospirazione ordita contro la Siria per creare il disordine e fomentare le agitazioni con il pretesto della libertà e della democrazia, sostenuta dai Paesi occidentali.
Al Louji ha detto che l’amnistia sarà applicata a coloro che hanno partecipato alle manifestazioni in modo pacifico e non sono stati coinvolti in nessun crimine, mentre non comprende chi è stato coinvolto nell’uso delle armi, in azioni di sabotaggio contro le istituzioni statali o le proprietà pubbliche e private, così come coloro che hanno rifiutato di deporre le armi entro la data fissata dal decreto e che saranno perciò consegnati alla giustizia.

 

* Fonte: Ambasciata di Siria a Roma

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Romania: continuano le manifestazioni

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La situazione a Bucarest peggiora di ora in ora. Il capo del governo Emil Boc ha richiamato Raed Arafat, spinto dalla proteste di piazza che sostengono il medico siro-romeno, ma le manifestazioni nel centro della capitale non accennano né ad allentarsi, né tanto meno a smettere. La serata di ieri (16 gennaio) è stata ancora molto agitata, anche se verso la tarda notte la piazza si è tranquillizzata.

Altre persone sono state arrestate e talune per possesso di arma da fuoco, che per fortuna non hanno adoperato. Vi sono stati anche altri feriti e l’Inspectoratul pentru Situatii de Urgenta (Isu) ha dichiarato il codice blu. Centinaia di studenti ieri sera (16 gennaio) sono giunti in Piata Universitatii per aggregarsi agli altri dimostranti. Ma adesso è tutta la Romania a essere in subbuglio, i manifestanti sono infatti migliaia e sono presenti in tutte le grandi città del Paese, dimostrazione – posto che ve ne fosse bisogno – che il caso Arafat non era, non è, il cuore dei malumori della popolazione romena.

Curiose alcune fotografiche, che riprendono diversi giovani ai lati dei protestatari con in mano telefoni cellulari in continuo uso: c’è chi sospetta che si tratti di operazioni premeditate ed eteroguidate. Per taluni commenatori i manifestanti violenti, a parte qualche eccezione, stanno compiendo opera di diversione e sarebbero agenti della polizia segreta, mandati tra i dimostranti pacifici appositamente per screditarli agli occhi dell’opinione pubblica.

Dal punto di vista politico non ci sono grandi novità, tranne che il Fondo Monetario Internazionale ha detto esplicitamente di non voler rinunciare alla “visita di controllo” in Romania prevista tra il 25 gennaio e il 6 febbraio, nonostante le rivolte in tutto il Paese e i malumori delle persone. Il Fmi ha detto esplicitamente, per bocca del suo commissario nel Paese carpatico, Jeffrey Franks, che i ritardi, specialmente quelli del sistema sanitario, sono uno dei maggiori problemi dell’economia del Paese e ha chiesto al governo un’immediata riforma. Vedremo se Basescu e Boc, prima di andarsene e se lo faranno, diranno l’ennesimo signorsì ai padroni delle ferriere dell’usurocrazia mondialista oppure se questi ultimi metteranno al loro posto qualche altro tirapiedi per assestare il colpo di grazia alla Romania.

D’altra parte nelle scorse un commentatore ha esplicitamente detto che il governo tutti i lunedì mattina trova sul tavolo la pappa pronta e deve solo mettere la sua firma: quale sia il cuoco della suddetta pappa non è dato sapere ma non difficile da immaginarsi…
Davanti a questo scenario, chiaro per molti versi ma assai confuso sotto diversi aspetti, è legittimo chiedersi che cosa potrebbe succedere di grave nelle prossime ore. Pare niente e già qualcuno dai mezzi di comunicazione avanza l’ipotesi che a breve le proteste si estingueranno. Oggi peraltro i telegiornali hanno mostrato eloquenti immagini di bravi e disciplinati romeni (mica quelli arrabbiati ma pacifici in piazza!) che hanno fatto la loro brava fila per pagare le tasse, che quest’anno sono aumentate del quattro percento. Code piuttosto lunghe agli sportelli, soldi in mano (quelli che restano) e facce rassegnate, mentre fuori c’è la tempesta.

La volta scorsa osservavamo che duemila persone in piazza non possono suscitare allarmi rivoluzionari, ora che sono molte di più che duemila potremmo dire la stessa cosa. Basescu, per esempio, ha dichiarato che davanti a cinque milioni (sic!) di romeni in piazza avrebbe dato le dimissioni, ma che qualche migliaio non sono significativi. A questo punto – a parte gli agenti sobillatori di qualche servizio segreto interno o estero – non più siamo così tanto sicuri. Le due attuali realtà della Romania – chi protesta e chi fa la coda per pagare le tasse al governo, che a sua vòlta le dirotterà alle banche – sono da soppesare molto attentamente: chi prevarrà? Se poi i dimostranti siano solo un conatus e quindi non ci saranno conseguenze è possible, ma al momento è ancora presto per dirlo. Quando il Fmi avrà stilato la sua sentenza di morte sulla Romania tra non molti giorni, allora avremo dati più precisi. E, purtroppo, li avrà anche il popolo romeno, il quale – e questo possiamo dirlo – si deve preparare a tempi molto duri.

 

*Luca Bistolfi è esperto di Europa orientale

 

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Aggiornamenti sulla situazione siriana

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E’ stato liberato ieri sera, alla presenza dei membri della delegazione di osservatori della Lega Araba, un gruppo dei detenuti che hanno beneficiato dell’amnistia concessa dal presidente della Repubblica Araba Siriana, Bashar Al Assad, in base al decreto legislativo n° 10 del 2012. Nella prigione centrale di Damasco, alcuni di coloro che sono stati liberati hanno dichiarato che il varo del decreto rappresenta per loro un nuovo inizio per tornare alla loro vita normale e contribuire alla creazione della società.

 

* Fonte: Ambasciata di Siria a Roma

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RUANDA – Secondo il rapporto francese non furono i Tutsi ad abbattere l’aereo di Habyarimana: ma qual è la verità?

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Nel 1994, il missile che colpì l’aereo dell’allora presidente del Ruanda Juvenile Habyarimana (sostenuto dalla Francia), il cui abbattimento fu la scintilla che scatenò il genocidio ruandese, non venne sparato dai ribelli tutsi, ma da alcuni ufficiali hutu, desiderosi di bloccare l’applicazione del trattato di pace che il presidente aveva appena firmato ad Arusha, in Tanzania.

Lo afferma un rapporto commissionato dai due giudici francesi titolari dell’inchiesta, Nathalie Poux e Marc Trevidic, presentato alcuni giorni fa alle parti civili.
Secondo la ricostruzione effettuata dagli inquirenti nella prima inchiesta sull’attentato, coordinata dall’altro magistrato francese Jean-Louis Bruguiere, il velivolo sarebbe stato abbattuto da un missile sparato da alcuni guerriglieri del Fronte di Liberazione nazionale, l’esercito di liberazione tutsi guidato dall’attuale presidente ruandese Paul Kagame, appostati in una fattoria sulla collina di Masaka, a circa 3,5 chilometri dal luogo dello schianto.

Ma, in base alle nuove perizie effettuate sul posto da esperti balistici e ad alcune nuove testimonianze, questa versione non sarebbe sostenuta dai fatti: l’aereo sarebbe infatti esploso in volo e precipitato immediatamente, quindi il luogo di partenza del missile dev’essere più prossimo a quello dell’impatto.

Il nuovo rapporto individua dunque il campo militare sulla collina di Kanonbé, nei pressi del quale furono ritrovati i rottami dell’aereo, come punto di partenza del missile. Questo significa che a sparare sarebbero stati dei militari hutu ospiti della struttura, che non volevano veder applicato il trattato di Arusha e volevano accelerare la repressione della guerriglia tutsi (sostenuta dagli Stati Uniti).

Senonché, secondo la testimonianza di Paul Mugabe, che fu membro dell’alto comando delle RPF (Fronte Patriottico Ruandese), il Maggiore Generale Paul Kagame ordinò di persona l’abbattimento dell’aereo del presidente Habyarimana, allo scopo di prendere in mano in controllo del paese. Egli era pienamente consapevole che l’assassinio di Habyarimana avrebbe scatenato un genocidio contro i civili Tutsi.

Come ci ricorda Michel Chossudowsky: “Il Maggiore Generale Paul Kagame era uno strumento di Washington. La perdita di vite umane in Africa non costituì un problema. La guerra civile in Ruanda ed i massacri etnici erano parte integrante della politica estera USA, messa a punto secondo precisi obiettivi strategici ed economici. Nonostante le buone relazioni diplomatiche tra Parigi e Washington e l’apparente unità dell’alleanza militare occidentale, si trattò di una guerra non dichiarata tra Francia ed America. Attraverso il supporto delle forze ugandesi e ruandesi e l’intervento diretto nella guerra civile in Congo, Washington ha anche una responsabilità diretta per i massacri etnici compiuti nell’est del Congo, incluse varie migliaia di persone che morirono nei campi profughi. I dirigenti USA erano pienamente al corrente che una catastrofe era imminente. Infatti, quattro mesi prima del genocidio, la CIA avvertì con una lettera confidenziale il Dipartimento di Stato USA che gli accordi di Arusha sarebbero saltati e che “se le ostilità dovessero ricominciare, perderebbe la vita più di mezzo milione di persone.”

Quest’informazione fu nascosta alle Nazioni Unite: “fu solo dopo la fine del genocidio che l’informazione fu passata al Magg. Gen. Dallaire [responsabile delle forze ONU in Ruanda].”¹. L’obiettivo di Washington era di rimpiazzare la Francia, screditare il governo francese (che sosteneva il regime di Habyarimana) e stabilire un protettorato anglo-americano in Ruanda sotto l’egida del Magg. Gen. Paul Kagame.

L’operazione strategica statunitense fu poi completata mediaticamente grazie all’industria di Stato hollywoodiana, che nello scioccante film “Hotel Rwanda”, eluderà completamente le responsabilità di Washington nella destabilizzazione del paese e saluterà l’arrivo (volutamente tardivo) dei Tutsi coordinati dai militari ugandesi come l’evento salvifico.²

Oltre ad attribuire quasi completamente agli Hutu (filo-francesi) le responsabilità della guerra civile ruandese, la pellicola evidenzia altri particolari inquietanti: una cassa portata da un carrello elevatore fragorosamente cade e da essa escono centinaia di machete acquistati dalla Cina (i machete erano stati importati in realtà attraverso i normali canali commerciali).

A questo punto lo spettatore intuisce che le principali armi del genocidio provengono proprio da Pechino, maggiore concorrente economico degli Stati Uniti in Africa, mentre il direttore dell’albergo contrabbanda generi alimentari con l’ausilio di sigari cubani…

*Stefano Vernole è redattore di “Eurasia”

 

Note
1. Michel Chossudowsky, Gli Stati Uniti dietro al genocidio in Ruanda, Nuovi Mondi Media.
2. Nel film diretto da Terry George il veto statunitense all’ONU sul genocidio ruandese viene attribuito “ai tragici fatti della Battaglia di Mogadiscio di pochi mesi prima che avevano paralizzato la volontà americana di intervenire sullo scacchiere africano”, nascondendo perciò le reali motivazioni di Washington. Significativa la recensione del 18/04/2009 scritta da Jérémie Conde: “Hotel Rwanda è in linea con i film impegnati che il nuovo Hollywood con l’arrivo di Bush al potere tende a costruire …” www.tortillafilms.tortillapolis.org

 

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Nel 2011 la diplomazia militare cinese ha incrementato i legami con le forze armate straniere

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PECHINO – La diplomazia militare cinese ha incrementato i legami con le forze armate straniere nel 2011, secondo Qian Lihua, direttore dell’Ufficio Affari Esteri del Ministero della Difesa Nazionale.

Consolidare la sicurezza con i paesi vicini

Alti ufficiali della Commissione Militare Centrale e del quartier generale dell’Esercito di Liberazione Popolare (PLA), hanno visitato 14 paesi limitrofi, compresi Vietnam, Myanmar, Nepal, Singapore e le Filippine, nel 2011. La Cina ha partecipato a riunioni per scambiare opinioni sulle questioni di difesa e di sicurezza, come la riunione dei 10 primi ministri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, il Dialogo di Shangri-La e l’associazione dei ministri della Difesa delle nazioni del Sud-Est asiatico. I militari cinesi hanno ottenuto una profonda cooperazione con le forze vicine nel campo della formazione militare e della ricerca accademica, e inviato professionisti per fornire cure mediche e aiuti umanitari nelle zone colpite da disastri in Pakistan e in Thailandia. Qian ha detto che la Cina dà sempre la priorità ai legami armoniosi con i paesi vicini, perseguendo una pacifica politica di comunicazione e cooperazione.
“La Cina dovrà affrontare controversie e questioni spinose per la sicurezza regionale, avendo cura degli interessi degli altri paesi e mantenendo i nostri principi allo stesso tempo”, aggiunge Qian.

Le relazioni militari sino-statunitensi hanno alti e bassi

La Cina da sempre sostiene lo sviluppo delle relazioni militari Cina-USA e non risparmia sforzi a tale scopo, ha detto Qian. Nel 2011, i vertici militari della Cina e degli Stati Uniti si sono scambiati opinioni e hanno preso parte a frequenti comunicazioni, anche in occasione della visita in Cina del segretario alla difesa Robert Gates. Il Capo di Stato Maggiore del PLA, Chen Bingde, e il presidente del Joint Chiefs of Staff degli Stati Uniti, Mike Mullen, si sono scambiati le visite nel giro di due mesi. Tuttavia, le relazioni militari sino-statunitensi sono state turbate dall’attuazione, da parte del governo statunitense, della vendita di armi a Taiwan nel 2011. “La Cina si oppone con veemenza alla vendita. Solo il rispetto e la mutua considerazione dei reciproci interessi ha potuto contribuire a rimuovere gli ostacoli e a promuovere le relazioni militari”, ha affermato Qian.

La diplomazia militare promuove il soft power del PLA

Qian ha detto che il paese e il PLA hanno attirato maggiore attenzione da parte della comunità internazionale, e si stanno abituando a rispondere alle incomprensioni e alle accuse ostili. Dall’aprile 2011, il Ministero della Difesa ha tenuto conferenze stampa mensili per rispondere a domande concernenti addestramento, strategia, attrezzature e relazioni estere militari. A marzo, il ministero della difesa ha pubblicato una versione più recente del Libro Bianco della difesa nazionale, e ha ufficialmente lanciato il suo sito informatico. Il ministero ha avviato varie attività come ad esempio una esibizione negli Stati Uniti dalla banda militare della Cina, e la visita della nave-ospedale della Marina del PLA “Arca di Pace” negli scali in America Latina per il servizio medico.

Esercitazioni militari congiunte

Nel 2011, la Cina ha partecipato a otto esercitazioni militari congiunte e a sessioni addestrative con forze armate estere, tra cui l’addestramento anti-terrorismo Cina-Pakistan, addestramento delle forze speciali Cina-Indonesia e l’addestramento delle truppe paracadutiste Cina-Bielorussia. “L’addestramento militare e le esercitazioni congiunte sono un importante approccio per migliorare la capacità di combattimento del PLA “, ha detto Qian. “L’addestramento e le esercitazioni sono diventati una regolare attività di interscambio per il PLA”.

* Fonte: “China Daily”

(Traduzione a cura di Alessandro Lattanzio)

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Ridefinire il binomio guerra-pace nell’era globale

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Il binomio guerra e pace, che per lungo tempo ha semplicemente significato due ben distinte pratiche rituali del gioco politico, statale e non, susseguentisi l’una all’altra, nell’era globale necessita di essere ridefinito.

Le nuove “pratiche di guerra e pace” rendono impronunciabile il termine guerra, quasi fosse tabù, e lo nascondono sotto le etichette di “intervento umanitario” e “peace-keeping operations”, mentre ciò che chiamiamo pace in realtà si confonde, tende a sfumarsi ed a sovrapporsi al “momento” armato, desacralizzandolo.

Il termine pace risuona piuttosto come processo di “building democracy” pilotato dalle potenze atlantiche al fine di inculcare valori occidentali ormai globali (democrazia, “libero mercato” ecc). Autori classici quali Karl von Clausewitz, sebbene ancora oggi studiati e dibattuti, devono essere rivisitati e riconsiderati completamente alla luce di queste nuove “operazioni chirurgico-asimmetriche” in cui non si dichiara guerra e non si stipula una pace.

Come definire questo binomio nell’era globale di oggi? Quali le prospettive future?

 

Il pensiero di Clausewitz alla luce del nuovo rapporto guerra e pace

Parlare di guerra e pace nell’epoca globale in cui viviamo non significa altro che ridefinire e talvolta “rovesciare” il pensiero politico e strategico di grandi pensatori classici quali Clausewitz, vissuto in un periodo storico non così lontano cronologicamente dal nostro, ma “concettualmente” inattuale.

Senza entrare troppo nello specifico intorno alla vita e alla complessa architettura teorica che sottende il pensiero politico di questo autore, poiché ciò non è oggetto della mia indagine, cercherò tuttavia di mostrare come alcune sue riflessioni non siano più utili per comprendere il sistema internazionale odierno.

Clausewitz, generale prussiano, teorico e stratega sotto il regno di Federico Guglielmo III, considera la guerra alla stregua di un duello, la cui violenza serve a costringere l’avversario ad eseguire la nostra volontà ed ha come scopo finale il disarmo dell’avversario stesso.

Nient’altro dunque che la risultante di due forze che si contrappongono e tendono a prevalere l’una sull’altra; forze che inevitabilmente sono frenate da una “nebbia” conflittuale.

Questa “nebbia” impedisce alla prima di invadere lo spazio della seconda, poiché la guerra è come un camaleonte: cambia forma ed è a tratti imprevedibile.

La pace che ne consegue diviene di conseguenza un momento isolato dalla guerra, in cui il nemico non è un inimicus ma un hostis (schmittianamente parlando); non dunque un “altro o alieno”, ma un simile che deve essere ricompreso e riconsiderato, diremmo oggi, nel sistema regionale o ad un livello superiore, nel sistema mondiale in cui viviamo.

Guerra e pace somigliano dunque a un gioco della politica con regole ben definite, in cui ogni giocatore non viene eliminato o demonizzato, ma “rientra” infinite volte.

Se l’epoca in cui scrive il generale prussiano è quello dei grandi eserciti di metà Ottocento, come cambia il binomio guerra e pace oggi, nel mondo globale e glocale in cui viviamo, dove non esistono barriere spaziali, dove l’informazione ci permette di vivere in tempo reale ciò che accade intorno a noi e dove la tecnologia dirada definitivamente la nebbia clausewitziana?

La guerra risulta essere non più un duello tra Stati, ma un’operazione “chirurgica” fortemente asimmetrica, risultante nient’altro che dalla sommatoria delle forze della “comunità internazionale” contro un nemico “inerme” che non si riconosce come facente parte di tale “club”, ma un vero e proprio inimicus, un “rogue state” da sconfiggere e da eliminare definitivamente.

Siccome un tale nemico non può opporsi, poiché non possiede capacità militari paragonabili al braccio armato atlantico, soccomberà inevitabilmente; potrebbe giocare la carta del terrorismo come arma del più debole, ma non vincerà.

Vi sono sì due forze che si contrappongono, ma una chirurgicamente opera sul “corpo” inerme dell’altra.

Seminiamo violenza, ma non pronunciamo più la parola guerra, quasi fosse un tabù ; non vi è una dichiarazione di guerra, un vero e proprio cerimoniale che ne indichi l’inizio, ma il tutto si riduce ad una votazione favorevole del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (e molte volte, in verità, all’unilateralismo delle potenze dominanti) che decide di usare la forza etichettandola come “intervento umanitario” e di “peace keeping operations”.
 

Intervento umanitario e peace keeping operation

Con il primo termine si intende definire una guerra di tipo nuovo, che non è necessaria ma obbligatoria; essa si autolegittima (ponendosi al di sopra del diritto internazionale) dichiarando lo scopo di salvare la popolazione dalle violenze dello Stato canaglia o del dittatore di turno.

Il paradosso sta nel fatto che l’uso della forza armata nasce da un’esigenza di difesa dell’universalità e il rispetto dei diritti umani e non pochi sono i casi in cui proprio i promotori di tali valori a loro volta dichiarano uno stato di emergenza umanitaria con un fine che in realtà differisce totalmente dallo scopo iniziale: attraverso l’elaborazione teorica di un programma di post-war rebuilding, favorire la creazione di uno nuovo spazio economico all’interno dello stato “liberato”.

Il caso libico è emblematico: se già nel 2006 Londra liberò l’agente libico Abdel Basset al-Megrahi, responsabile dell’attentato di Lockerbie, in cambio di concessioni per petrolio e gas mentre Parigi dovette “accontentarsi” di vendere vecchi Mirage F-1 utilizzati anni dopo per bombardare i rivoltosi, oggi, non stupisce che al termine della “guerra” libica, l’Europa e non solo essa, ricominci la corsa agli idrocarburi.

Dopo la fine dei conflitti armati, dove si colloca il sacrale momento della pace?

La domanda non ha una facile risposta: questa si confonde infatti con la guerra, costituendo un unicum in cui si alternano momenti di tregua a ripresa delle ostilità; non mi riferisco ovviamente alle pause della tregua Dei medioevale o quelli tipici dello jus publicum Europaeum, quanto piuttosto esse sembrerebbero atte non tanto a ricercare la pace quanto piuttosto a preservarla dallo scoppio di reiterate ostilità.

Pace è forse quando gli Stati Uniti hanno ritirato le truppe dell’Iraq o quando le grandi potenze decidono che è giunto il momento di creare un nuovo spazio democratico più forte che promuova il mercato esportando e successivamente inculcando valori occidentali in sistemi regionali non geograficamente né tradizionalmente occidentali? Oppure tutti e due?

Non si stipulano trattati di pace, poiché il nemico deve essere eliminato e sostituito e il gioco politico della guerra deve finire il prima possibile con un notevole ritorno economico.

Questa già difficile distinzione si riflette inoltre, dalla sovrapposizione dei termini in oggetto, con particolare riferimento alla seconda etichetta di nuova guerra dell’era globale: le cosiddette peace-keeping operations.

Questo termine di guerra post-moderna contiene già in sé la parola pace risultando anche a livello terminologico arduo comprendere dove inizi la pace e dove finisca la guerra; in particolare l’idea generale è che attraverso operazioni di guerra si debba preservare la pace.

Se nei fini statutari dell’ONU è esplicitamente previsto che tale organizzazione debba mantenere la pace e la sicurezza, di fatto, non trovano esplicita previsione in esso; la legittimità giuridica della quale è stata ravvisata da gran parte della dottrina nel consenso delle parti in causa alla missione.

Questo di fatto obbliga il “monomio” guerra e pace non solo a ridefinirsi rispetto a quanto detto ma, parimenti, a ricercare una nuova fonte di legittimità ad hoc.

A sua volta questo vocabolario dei nuovi conflitti armati si arricchisce di nuove definizioni: si parla, infatti, di peace enforcement operations o di peace building operations come varianti della più ampia famiglia delle peace keeping operations; il secondo, è emblematico, poiché fa riferimento al tentativo di preservare la pace attraverso un processo di ingerenza nella sfera di sovranità altrui al fine di promuovere non solo lo stato di diritto ma anche per l’appunto i valori occidentali di cui ho discusso poc’anzi.
 

Prospettive future

Non è semplice delineare il “futuro” di termini quali guerra e pace.

Come abbiamo visto nell’epoca globale in cui viviamo questo binomio tende a perdere di significato poiché non ha più un valore “cerimoniale” inteso come rituale di due momenti a sé stanti.

Portare guerra significa dunque, spostare il teatro di guerra nel territorio nemico preservando la sacralità del territorio in cui vivo; una forza (quella della “comunità internazionale”) plasma come argilla l’altra, la quale non ha infatti la capacità di resistere, se non utilizzando l’ arma terroristica come arma dei più deboli.

La sovrapposizione e la compenetrazione di questi due con il passar del tempo tenderà ad aumentare poiché il fattore tecnologico è quello che ha permesso alla sfera riservata alla guerra di fuoriuscire e invadere il campo della pace.

A mio avviso se le distanze risultano essere ormai annullate dal processo di globalizzazione in cui viviamo, i conflitti armati tenderanno, grazie al continuo ammodernamento degli armamenti, a divenire sempre più di breve se non di brevissima durata eliminando definitivamente il confronto tra le due forze contrastanti clausewitziane (che come detto ad oggi risulta essere una “agente” contro una “inerme”).

La “guerra” risulterà esaurirsi sempre più quale questione di first strike non lasciando all’avversario alcun tempo di reazione.

Se le tecnologie del futuro, tenderanno a concentrarsi nelle mani di pochissimi stati, la guerra diverrà sempre più un sofisticato strumento elitario, portando questi ultimi a rinnegare sempre più le regole stabilite non solo dallo Statuto dell’Onu ma quelle della normale convivenza internazionale.

Il mio nemico, non più hostis né inimicus, diverrà un inimicus assoluto e la guerra si tradurrà nient’altro che in un fatto privato e personale, poiché non ci si nasconderà più dietro l’etichetta di intervento umanitario per influenzare e “pilotare” la sfera sovrana altrui.

La pace risulterà, di conseguenza, essere dettata dal più forte nei modi e nei tempi preferiti.

 

*Luca Francesco Vismara, dottore in Relazioni Internazionali presso l’Università Statale di Milano.

 

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Il Kazakhstan sotto attacco

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ASTANA – Dagli anni Novanta ad oggi, con la fine dell’impero sovietico, nella società kazaka si è manifestato un riaffiorante sentimento religioso. Specialmente nelle aree meridionali e occidentali del Paese è facile osservare, accanto a un rifiorire dell’Islam, la crescente presenza di seguaci della setta salafita, sostenuta da ambienti sauditi e qatarioti e ostile alla pratica islamica tradizionale.

Sebbene in termini numerici i seguaci di tale setta siano ancora pochi, la loro presenza è in costante aumento, così come l’attività violenta (c’è comunque da sottolineare che non tutti i salafiti sono violenti, così come non tutti gli aspiranti violenti siano salafiti). Sono ormai famigerati i “gihadisti” nel Nord del Caucaso e l’Esercito del Califfato (Jund Al Khilafa) operante sul centralissimo e fondamentale confine fra Afganistan e Pakistan. Questi gruppi composti quasi esclusivamente da kazaki rivendicano l’opposizione totale e violenta al presidente Nursultan Nazarbaev.

Solo nel 2011 tre sono stati gli attacchi terroristici compiuti in Kazakistan che possono collegarsi all’attività di tali gruppi estremisti: per esempio il 12 novembre a Taraz (sud-est del Paese) Maksat Kariev ha compiuto un attacco dopo esser stato indottrinato a dovere e lo stesso copione è possibile rintracciare per l’attentato del 12 ottobre presso Atyrau (sul Mar Caspio); tali azioni confermano la sempre maggiore incisività degli estremisti in provincia e la usuale composizione di tali gruppi con sei-sette militanti mossi da una “guida spirituale” “salafita-gihadista”.

Il governo kazako ha promosso leggi nel tentativo di controllare i piccoli gruppi religiosi, ma non è chiaro se tali accorgimenti riusciranno nel legittimo intento di fermare i terroristi, così in aumento – e la coincidenza è per lo meno curiosa – nelle aree più interessanti per la strategia geopolitica Usa. Lo stesso Kazakistan, colmo di risorse energetiche e posizionato nel centro del continente eurasiatico, è costantemente minacciato anche dall’esterno, specialmente attraverso il soft power dei mass media: tale doppio attacco, interno ed esterno, sottolinea l’importanza strategica del Paese e della regione, così come il fondamentale bisogno di una cooperazione eurasiatica capace di assicurare benessere e sicurezza alle popolazioni del continente.

*Matteo Pistilli è redattore di Eurasia

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Progetti statunitensi per la “nuova Europa”

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Mentre il popolo romeno è in subbuglio e quasi alla canna del gas, il Pentagono ha stanziato 14,3 milioni di dollari per il Paese carpatico per l’aggressione ai danni dell’Afghanistan. L’anno scorso lo stanziamento fu di “solo” 7,3 milioni di dollari.
Non solo la Romania beneficerà di questo incremento, bensì anche l’Ungheria (13,3 milioni contro i 2,87 dell’anno scorso), la Polonia (14 milioni contro i 2,85 dell’anno passato) e la Lituania (12,8 contro i precedenti 5,7).
Gli Usa stanno investendo nei Paesi dell’Est Europa (che, ricordiamo, sono la maggioranza dei membri Nato) perché gli alleati occidentali – quali Germania, Uk e Olanda – stanno riducendo gli stanziamenti per la difesa a causa della crisi finanziaria.
Molto interessante anche un altro dato, ossia che gli americani, a quanto pare, stanno riducendo i propri soldati attualmente accampati nell’Europa dell’Ovest, soprattutto in Germania. Leon Panetta, segretario americano alla Difesa, ha precisato che gli Usa intendono dimezzare le truppe convenzionali presenti in Europa, in numero che andrebbe dalle 6 alle 10mila unità. Questa riduzione, dichiara Washington, sarà compensata attraverso la rotazione delle truppe e l’organizzazione di molte più esercitazioni in comune.
Il quadro a questo punto inizia a essere un poco più chiaro: gli americani sposteranno le loro truppe da Ovest ad Est e i Paesi dell’ex Oltrecortina saranno “ricompensati” per l’accoglienza che sicuramente daranno con molti bei soldini. Tuttavia il denaro elargito dagli USA non servirà a risollevare le sorti di quei Paesi, bensì a sostenere la politica espansionista americana e dei loro collaboratori nel Vicino Oriente. La domanda a questo punto è lecita: a parte le varie “missioni di pace” in giro per il mondo, quali sono i progetti di Washington per l’Est Europa?

 

*Luca Bistolfi è esperto di Europa orientale

 

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Conferenza “SONGUN. Antimperialismo e identità nazionale nella Corea socialista (Foto e video)

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Sabato 21 Gennaio, a Milano, si è svolto davanti ad un folto pubblico, il seminario di Eurasia 2011-2012: “Songun: antimperialismo e identità nazionale nella Corea socialista”. Nell’occasione è stato presentato in anteprima il libro di Alessandro Lattanzio “Songun: antimperialismo e identità nazionale nella Corea socialista”, edito dalla casa editrice “Edizioni all’insegna del Veltro”.
Di seguito riportiamo alcune foto della conferenza e i link alla videoregistrazione degli interventi.


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Vladimiro Giacché recensisce “Il Risveglio del Drago” su Radio Popolare

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Tre minuti per… Il Risveglio del Drago

Vladimiro Giacché, laureato e specializzato in filosofia presso Pisa e Bochum, si occupa di economia e politica, ed è dirigente dell’Associazione Marx21 e collaboratore de Il Fatto Quotidiano.

Nel quadro dell’ormai noto spazio dedicato alla bibliofilia, che gestisce all’interno delle frequenze di Radio Popolare, questa settimana (lunedì 23) ha deciso di inserire Il Risveglio del Drago.

Ascolta la registrazione della trasmissione (nei minuti finali)

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Unione Eurasiatica e stabilità geostrategica della Russia

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L’alto stratega della politica estera e russofobo fanatico Zbigniew Brzezinski aveva dato un’indicazione, quando ha scritto ne La Grande Scacchiera: la supremazia Americana ed i suoi imperativi geostrategici, che “la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. La Russia senza Ucraina può ancora lottare per lo status imperiale, ma sarebbe poi diventata uno stato imperiale prevalentemente asiatico”, ma tuttavia sotto la pressione permanente delle repubbliche dell’Asia centrale e della Cina. Aveva anche sottolineato molto opportunamente che in e “Tuttavia, se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina, con i suoi 52 milioni di abitanti e le sue importanti risorse, così come l’accesso al Mar Nero, la Russia riacquisterà di nuovo automaticamente i mezzi per diventare un potente Stato imperiale, che copre l’Europa e l’Asia”.

In altre parole, la Russia non può realisticamente sperare di raggiungere la stabilità geostrategica, a meno che non riesca a controllare l’Ucraina. Di conseguenza, il compito di ostacolare le sinergie tra i due paesi occupa un aspetto significativo nell’agenda della politica estera di Stati Uniti e Unione europea. L’articolo d’opinione del premier russo Vladimir Putin, pubblicato sulle Izvestija nel 2011 – “Un nuovo progetto di integrazione per l’Eurasia: il futuro in divenire” – dove si propone la costruzione di una unione eurasiatica nello spazio post-sovietico, semplicemente è finito sotto il tiro dell’Occidente, come quando Putin suggerisce un’alleanza tra Russia, Ucraina e Bielorussia, in cui il Kazakistan e le altre repubbliche della ex Unione Sovietica sarebbero le benvenute.

E’ chiaro che l’Occidente non lesinerà gli sforzi per evitare che il progetto si concretizzi, e la tattica di Bruxelles, dietro la zona di libero scambio e di associazione con l’Ucraina, riflette questo ampio approccio. Kiev affronta le valanghe di critiche per l’arresto dell’ex premier ucraina Julija Tymoshenko, e gli attacchi contro l’Ucraina dell’attuale leader di V. Janukovich a volte confinano con le minacce dirette ma, per ragioni molto più profonde, i capitani dell’UE sono pronti a siglare un accordo di associazione con il paese, dispensare le promesse dell’Eurointegrazione alla sua leadership o anche – in un lontano futuro – una vera ammissione dell’Ucraina nell’Unione europea, solo per assicurarsi che i processi di unificazione all’interno della comunità degli stati slavo-orientali (e, potenzialmente, di un ulteriore passo nello spazio post-sovietico) subiscano un brusco stop.

E’ un aperto segreto che l’Ucraina sia la chiave per l’attuazione di una serie di piani geostrategici occidentali. Viene offerto l’inizio della preparazione all’adesione nella NATO, e le circostanze come quella in cui la costituzione ucraina dichiarato il divieto di fusione con dei blocchi militari o l’esistenza della base navale russa nella città ucraina di Sebastopoli, non sembrano rendere impossibile estendere l’invito. Di fatto, la NATO sta coltivando relazioni con la Georgia post-sovietica, indipendentemente da simili ostacoli giuridici.

A mio parere, l’integrazione dell’Ucraina nella NATO sarebbe letta come un casus belli per l’Europa. Secondo l’accordo, il mondo si troverebbe solo a un paio di passi da un conflitto potenzialmente globale, il primo passo è il dispiegamento delle basi NATO in Ucraina, il secondo – l’entrata in gioco dei fattori legati al conseguente inaudito accorciamento del tempo necessario ai missili degli Stati Uniti per raggiungere gli obiettivi cruciali in Russia. Promesse, assicurazioni o garanzie giuridiche di qualsiasi tipo non contribuirebbero a dissipare le preoccupazioni di Mosca, considerando che le guerre iniziano sempre in violazione del principio dei pacta sunt servanda. A proposito, ho tenuto una conferenza sul tema in una conferenza internazionale ospitata dalla sede della NATO di Bruxelles, negli anni ’90, che ovviamente aveva attirato una notevole attenzione al momento. Vedendo la sua capacità di difesa seriamente erosa e quindi lasciata incapace di poter rispondere a un attacco con una ritorsione strategia, la Russia avrebbe potuto o passare al lancio dei missili su allarme o, a causa della brevità del tempo di preavviso, oppure ampliare la sua dottrina fino al punto di abbracciare gli attacchi preventivi. Gli attacchi non dovevano essere necessariamente nucleari, ma l’intera situazione si sarebbe automaticamente trasformata nel prologo di un conflitto armato. Questo è il motivo numero uno per cui l’adesione alla NATO dell’Ucraina alimenterebbe dei rischi estremi e recherebbe lo spettro di una catastrofe globale.

L’Unione europea tende a concentrarsi sulle questioni economiche, sociali e culturali, e in Ucraina le posizioni in campo oscillano visibilmente mentre Kiev tenta di strappare vantaggi contemporaneamente sia in Occidente che in Oriente. Il 18 ottobre 2011, l’Ucraina firmava a San Pietroburgo un trattato per la zona di libero commercio, il cui elenco dei firmatari comprende attualmente otto repubbliche post-sovietiche, con altri 3 candidati – l’Azerbaigian, il Turkmenistan e l’Uzbekistan – in attesa.

Il trattato è entrato in vigore con grandi limitazioni e non si applica alle materie prime come petrolio, gas naturale, metalli e zucchero, ma un piano per ampliare il campo di applicazione l’accordo è già sul
tavolo.

In generale, l’integrazione economica post-sovietica si muove con grande difficoltà e con sospensioni ricorrenti. La più semplice parte iniziale del processo – l’istituzione di una zona di libero scambio – esemplifica completamente la tendenza. Sommariamente, la zona è stata creata nel 1994, ma le legislature dei partecipanti non sono riuscite a ratificare l’accordo corrispondente. Anche se un nuovo accordo è stato firmato solo nel 2011, deve ancora nascere l’idea che una zona di libero scambio riguarda il commercio senza dazi e in sostanza null’altro. L’unione doganale formata da Russia, Bielorussia e Kazakistan (e che il Kirghizistan sta guardando in questo momento) è la naturale fase successiva del processo, in quanto implica politiche tariffarie comuni dei suoi membri nei confronti di paesi terzi, oltre che l’abolizione di fatto delle frontiere interne. Uno spazio economico comune con i suoi membri che sincronizzano una vasta gamma di loro strategie economiche e politiche e che, possibilmente, optano per una valuta comune, dovrebbe essere la forma più avanzata di integrazione da attuare.

L’unione doganale e lo spazio economico comune dovrebbero, idealmente, essere supervisionati da istituzioni sovranazionali. Una volta che queste istituzioni sono operative, il processo di integrazione può essere aggiornato per includere la creazione dell’unione eurasiatica descritta nell’articolo di Putin dell’ottobre 2011. I leader degli altri paesi hanno contribuito al dibattito: A. Lukashenko della Bielorussia, in un articolo intitolato “il destino della nostra integrazione” e N. Nazarbayev, ne “L’Unione euroasiatica: dal concetto alla storia del futuro”. Lukashenko, si deve notare, esprime ne “il destino della nostra integrazione” una visione a cui i suoi colleghi di tutto lo spazio post-sovietico potrebbero facilmente identificarsi: uguali diritti, il rispetto della sovranità nazionale e l’inviolabilità delle frontiere, sono gli unici principi plausibili su cui può essere costruita l’integrazione. La domanda naturalmente che sorge nel contesto è quale ruolo viene adottato dall’Ucraina nella dinamica di cui sopra. Il paese era sulla lista degli ipotetici partecipanti quando Putin aveva precisato l’ordine del giorno per lo Spazio economico comune nel 2003, ma Kiev ha scelto di tenersi alla larga dal progetto. Il 18 ottobre 2011, l’Ucraina ha siglato un accordo sulla zona di libero scambio cui 11 repubbliche post-sovietiche – tutte, tranne la Georgia – probabilmente lo rispetteranno. Mosca farebbe bene a coltivare le sue relazioni con Kiev all’interno di una sequenza di alleanze che implichi sempre una più stretta integrazione economica. Senza dubbio, gli interessi economici delle parti coinvolte sono una base adeguata per il processo. L’Ucraina ha lo status di osservatore nella Comunità economica eurasiatica, inoltre ora è uno dei firmatari dell’accordo di libero scambio, il gradualismo ragionevole
promette progressi notevoli nel lungo periodo.

Gli accordi di libero scambio o di associazione con l’UE dell’Ucraina, se passano nonostante la persistente crisi sistemica in Europa, non dovrebbero impedire alla Russia di interrompere il piano di portare l’Ucraina nell’orbita dell’integrazione post-sovietica. Inoltre, Mosca dovrebbe continuare a lavorare con l’Ucraina mantenendo questo obiettivo tra le priorità di politica estera della Russia, e i progressi fondamentali in questa direzione sarebbero immensamente superiori agli esigui guadagni come i vari tipi rilassati di commercio di materie prime.

Vi è tuttavia un fattore importantissimo che deve essere incorporato nel calcolo geostrategico di Mosca – e cioè le relazioni tra la Russia e la Cina. Senza dubbio, per la Russia la Cina è già un partner importante in una serie di strutture esistenti – la Shanghai Cooperation Organization e il BRIC, in particolare – ma la mia impressione è che la visione in politica estera di Mosca resta sotto l’incantesimo dell’Europa (questo squilibrio appare particolarmente inopportuno a seguito della svolta verso l’Asia degli Stati Uniti, prescritta dalla nuova dottrina militare di Washington). Anche il testo di Putin dice che l’unione eurasiatica dovrebbe essere “una parte essenziale della Grande Europa”, ma è anche vero che il pertinente rischio di un eccesso di dipendenza dall’Europa a scapito dell’Asia, non può essere scontato.

Sarebbe un grosso ignorare l’importanza della Cina per la sicurezza geostrategica della Russia. A questo proposito, vorrei rivedere la proposta russa di un trattato di sicurezza europea, ribadendo il mio suggerimento di vederlo rinforzato e trasformato in un trattato di sicurezza eurasiatica, con l’ascesa della Cina debitamente presa in considerazione. Il compito a lungo termine di chiarire la dimensione del trattato di difesa andrebbe ad integrare le interazioni in corso all’interno della Shanghai Cooperation Organization e del BRICS, soprattutto perché il primo è un sistema prevalentemente economico e il secondo una entità alquanto casuale.

Lo sviluppo e l’approfondimento del partenariato strategico con la Cina, insieme agli sforzi per convincere l’alleata Ucraina (e con la necessaria attenzione della Russia verso la Bielorussia e gli altri alleati) aiuterebbe la Russia a mantenere la sua stabilità geostrategica al punto che il paese sarebbe completamente immune alle invettive sparate da McCain e dai suoi simili.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2012/01/19/eurasian-union-and-russia-geostrategic-stability.html

 

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Al-Qaida in Siria: le ambizioni “imperiali” dell’emirato del Qatar

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Al-Qaida in Siria

In un video che segnava il decimo anniversario degli attacchi dell’11 settembre, il nuovo leader di al-Qaida, Ayman al-Zawahiri, esortava i siriani a “continuare la loro resistenza” al presidente Bashar al-Assad: “Il tiranno sembra vacillare. Continuate la pressione su di lui fino al prossimo autunno“, prometteva.

Non sarebbe stato difficile a un osservatore alle prime armi, che mostrasse una certa curiosità – innata o acquisita – nei conflitti in Medio Oriente, sottolineare che una certa somiglianza raccoglieva, in un unico cestino, i recenti attacchi terroristici che hanno colpito la capitale siriana, Damasco, e quelli che avevano colpito l’Iraq dopo l’invasione delle legioni dell’Impero statunitense; da notare, quindi, che il “cervello” che ha ordinato gli attacchi di Damasco aveva anche diretto il terrore in tutto il mondo, dagli attentati alle ambasciate statunitensi in Africa [1] all’ultimo attacco contro i civili in Iraq, che ha lasciato almeno 68 morti; e di trovare, inoltre, che tutti questi attacchi, del passato e del presente – ma anche quelli che potrebbero aversi nel prossimo futuro – provengono dalla stessa ideologia, basata sulla eliminazione dell’Altro, ossia il salafismo wahhabita; dato che 1) il metodo utilizzato – attentatori suicidi, autobombe – 2) la vittima mirata – le istituzioni governative e i luoghi civile – specialmente in Iraq – e 3) la giustificazione ideologica – una ideologia islamista salafita takfirista che chiede la morte degli “infedeli” e anche dell’Altro religioso.

Nel frattempo, non sarebbe stato così difficile – questa volta per un osservatore avvertito – notare che dopo il ritiro delle legioni dall’Iraq, l’Impero statunitense “rovescia il tavolo” sulla testa del giocatore iraniano, e ciò per stabilire un nuovo ordine regionale che manterrebbe il Medio Oriente sotto il suo controllo. Ma la Bastiglia non è ancora stata presa. Il trionfo momentaneo dei gruppi terroristici nel colpire il cuore della capitale siriana viene pagato con l’annientamento di tutte le illusioni e le fantasie che camuffano la presunta “rivoluzione” siriana, dalla disintegrazione di ogni discorso “filantropico” delle potenze imperialiste, dalla scissione della Lega araba in tre campi: i paesi resistenti all’Impero, i paesi obbedienti all’Impero e quelli che si tengono fuori.
Nacquero così le ambizioni imperiali dell’Emirato del Qatar.
 

Taliban in Qatar: il nemico di ieri, l’amico oggi

Ricordiamo tutti i discorsi patriottici del Cesare George W. Bush la sera dell’11 settembre, dalla Casa Bianca. Durante quella notte molto buia, Bush si rivolse alla nazione parlando con una certa gravità, che evocava in noi la memoria dei grandi patriarchi biblici: “Stasera vi chiedo di pregare per tutti coloro che sono afflitti, per i bambini il cui mondo è in frantumi, per tutti coloro il cui senso di sicurezza è stato minacciato. E prego che siano alleviati dal potere più grande di cui ci parla il Salmo 23: “Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, non temerei alcun male perché tu sei con me”.
Quella sera, dopo il suo discorso alla nazione, due angeli sarebbero scesi sulla Casa Bianca e avrebbero preso Cesare George W. Bush per mano, sussurrando al suo orecchio: “Vai dunque, conduci il popolo dove ti ho detto: Ecco, il mio angelo camminerà davanti a te, ma il giorno della mia vendetta, io li punirò per il loro peccato“. [2].

Pochi giorni dopo, Giovedi, 20 settembre, Cesare George W. Bush pronunciava un discorso a entrambe le Camere del Congresso. Tra i punti salienti del suo discorso, si legge:“Consegnare alle autorità americane tutti i leader di al-Qaida che si nascondono nella vostra terra“.“Queste richieste non sono aperti ai negoziati o discussioni. I taliban devono agire e agire subito. Consegnino i terroristi o condivideranno il loro destino”. “La nostra guerra contro il terrore inizia contro al-Qaida, ma non finisce qui. Non finirà fino a quando ogni gruppo terroristico che può colpire in qualsiasi parte del mondo sarà trovato, fermato e sconfitto”.

A dispetto dello Spirito Santo, che ha soffiato l’audacia nella bocca di Cesare, queste affermazioni sono diventate subito copyright della storia. Infatti, tutti gli ostacoli sembrano oggi eliminati affinché i negoziati possano iniziare tra i nemici di ieri, e amici di oggi.

A partire dall’estate 2011, si sente sussurrare nei corridoi delle potenze imperialiste, dell’apertura di un ufficio di rappresentanza dei taliban in Qatar, come simbolo del processo di pace con il principale gruppo di ribelli in guerra contro La NATO e il governo di Kabul.

Certo, questa iniziativa onorevole dell’emiro del Qatar, non avrebbe potuto vedere la luce senza la benedizione dell’Impero. Così, solo gli inviati degli Stati Uniti hanno incontrato “una dozzina di volte” i rappresentanti dei Taliban.

Tuttavia, questo evento non è in alcun senso un incidente isolato. Invece, è parte di un flusso di messaggi d’amore tra i gruppi islamici salafiti – Taliban e i Fratelli musulmani – da un lato, e l’impero statunitense – attraverso il suo concessionario in Medio Oriente, l’emirato del Qatar – dall’altro. Le prime luci della nuova alba sono apparse nel marzo 2009, dopo che l’amministrazione Obama aveva abbandonato la “guerra contro il terrorismo“, termine adottato dal suo predecessore Bush.

A un altro livello, i funzionari statunitensi hanno iniziato di recente dei colloqui con il governo di Kabul per trasferire alle autorità afgane dei funzionari di alto rango dei taliban, imprigionati nel Gulag dell’Impero, a Guantanamo, dopo l’invasione Afghanistan, e questo nella speranza di raggiungere una tregua tra Washington e gli insorti. I funzionari degli Stati Uniti hanno già espresso la loro approvazione a mandare via da Guantanamo i detenuti taliban [3].

Inoltre, fonti della amministrazione Obama hanno indicato che i prigionieri taliban saranno liberati una volta che i ribelli avranno accettato di aprire un ufficio in Qatar e avviato i colloqui con gli statunitensi [4]. Da parte loro, i taliban si sono detti disposti a portare avanti i colloqui.
Si noti che tali scambi romantici di tipo epistolare tra l’Impero e gli insorti avvengono dopo dieci anni di guerra atroce. [5]

Lontano dalle condizioni tremende di nemici di ieri, e di amici di oggi, nel corso di un ricevimento della delegazione della Lega araba, tra cui lo sceicco Hamad, a Damasco, il 26 ottobre scorso, il ministro degli esteri siriano Walid Moallem, secondo quanto riferito, aveva “lottato” per modificare alcuni articoli del testo dell’iniziativa araba, come l’articolo sul “ritiro dell’esercito siriano“, un articolo considerato il più pericoloso dalle autorità siriane, che ritiene impossibile considerare il ritiro dell’esercito dalle zone oramai diventate teatro di una guerra civile, come Homs. Ma lo sceicco Hamad ha chiesto il ritiro: “E’ imperativo rimuovere l’esercito e smettere di uccidere i manifestanti!” Diceva. Ciò che il presidente siriano ha dichiarato: “L’esercito non uccide i manifestanti, ma persegue piuttosto i terroristi armati. Se aveste una soluzione per finirla con questi ultimi, sarebbe la benvenuta!” [6]. Tuttavia, lo sceicco Hamad persisteva a voler fare credere ai suoi ospiti che respingeva qualsiasi uso del termine “terrorismo” ed ha anche mancato di ricusare ogni menzione delle bande nelle città [7].
Una domanda s’impone: perché questo anelito verso i gruppi armati islamisti – i nemici di ieri – da parte dell’Impero e del suo concessionario in Medio Oriente?

 

Il nuovo ruolo riservato al Qatar: la cornacchia che vuole imitare l’aquila

E’ chiaro fin dal principio che il ruolo svolto dal Qatar sul palcoscenico degli eventi regionali, dagli accordi di Doha nel 2008 [8] cerca di imporre questo piccolo emirato con una popolazione che non supera il milione e qualche centinaia di migliaia di assoggettati [9], come protagonista del conflitto in Medio Oriente.

Allo stesso modo, dal momento della sua precipitazione teatrale sulla scena degli eventi della presunta Primavera araba, l’Emiro del Qatar, Sheikh Hamad, insiste nel voler apparire nei costumi del despota illuminato. [10] Per farlo, si veste come Federico II di Prussia, detto Federico il Grande [20], e frequenta i Voltaire dell’imperialismo francese, come Bernard-Henri Lévy, e quelli dell’oscurantismo arabo, come Youssef al-Qaradawi [11].

Per contro, è vero che Hegel osservava da qualche parte che “tutti i principali eventi e personaggi storici si ripetono, per così dire due volte.” Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa [12].

Inoltre, lo sceicco Hamad – che si fa chiamare anche emiro – si è incontrato il 4 gennaio con il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, per coinvolgere l’ONU nella missione della Lega Araba di Siria, in modo di avvalersi dell’”esperienza” della organizzazione internazionale in fatto di missioni di pace e di interposizione [13].

Questo passaggio dalla emiro mira a raggiungere due obiettivi: primo, facilitare e legittimare un intervento della NATO nella crisi siriana – non è più un segreto che tra i recenti “esperimenti” delle Nazioni Unite, figura il via libero alla NATO per la distruzione della Libia – e in secondo luogo, contrastare il potere della Lega Araba e ridurne il ruolo, come organizzazione che rappresenta gli interessi del mondo arabo, a una sorta di Loya Jirga [14], rappresentando soltanto gli emiri e sultani delle famiglie reali del Golfo.

E’ lo stesso per l’emirato del Qatar, che ha un esercito di 1500 mercenari, ma che contiene, per contro, la più grande base militare statunitense nella regione, e mira a svolgere un ruolo internazionale, tanto grande quanto l’enormità della presenza di truppe straniere sul suo territorio.

Così, alle prime luci della cosiddetta primavera araba, il Qatar, che è diventato uno strumento mediatico nel mondo arabo nelle mani delle potenze imperialiste, accorse sul luogo degli eventi. Sottolineiamo a questo proposito il ruolo del canale al-Jazeera, il cui scopo è distorcere i dati effettivi della guerra imperialista contro la Siria, promuovendo un discorso di odio e di risentimento contro i gruppi delle minoranze religiose nel mondo arabo. Anche il Qatar, allineandosi alle posizioni che suggeriscono addirittura l’intervento straniero in Siria, è andato oltre la questione delle sanzioni contro la Siria, che hanno lasciato degli effetti negativi diretta sul tenore di vita, il cibo e le medicine del popolo siriano.

Noi condividiamo la stessa opinione del politologo russo Vjacheslav Matuzov, che ha sottolineato che il Qatar ha un ruolo negativo nella Lega araba, aggiungendo che “gli Stati Uniti vogliono la rovina e la distruzione della Siria come Stato arabo indipendente (…) L’Occidente ha una sola richiesta per la missione degli osservatori arabi, e cioè una presa di posizione in solidarietà con l’opposizione radicale, senza alcuna preoccupazione per gli eventi reali sul campo“, ha detto l’analista russo, in un’intervista alla TV “Russia Today” [15].

Vale la pena ricordare che l’interferenza ostile del Qatar negli affari interni della Siria avvengono quando due potenze si confrontano in una specie di guerra fredda nella regione del Golfo Persico: quella dell’aquila calva [16] statunitense e quella del Derafsh Kaviani iraniano. La presenza della prima potenza è in declino nella regione, soprattutto dopo il ritiro delle legioni dell’Impero dall’Iraq, quella della seconda potenza sta crescendo. Tra queste due grandi potenze belligeranti – Iran e l’Impero USA – le ambizioni “imperiali” del Qatar evocano in noi la favola di La Fontaine, la cornacchia che voleva imitare l’Aquila [17].

 

Il Qatar sequestra la Lega Araba

Durante tutti i periodi precedenti la presunta primavera araba, l’Egitto giocava un ruolo centrale nella Lega permettendogli di guidare il mondo arabo, soprattutto nell’era del presidente Nasser (1956 – 1970) e dell’ascesa dell’ideologia nasseriana [18].

Dalla sua nascita nel 1945, la Lega Araba era sempre divisa in due campi, dagli scopi politici opposti. In primo luogo, negli anni Quaranta e Cinquanta, l’accordo tra l’Egitto e l’Arabia favorevole all’indipendenza si opponeva ai progetti dell’asse hashemita giordano-iracheno, più incline a cooperare con la potenza britannica, ancora padrona di molti protettorati e mandati (Sudan, Palestina, Emirati Arabi, ecc.). Successivamente, nel contesto dell’anti-colonialismo e della Guerra Fredda, la divisione ha assunto una nuova linea tra Stati socialisti vicini all’URSS (Libia, Siria, Algeria, Egitto di Nasser, Iraq, Yemen del Nord) e Stati vicini agli Stati Uniti (gli emirati e sultanati arabi del Golfo) [19].

Infine, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la Lega araba era ancora divisa in due campi: da un lato, i paesi che resistevano ai piani di dominio degli USA (in particolare Siria e Libano), d’altra parte i paesi docili all’Impero (sempre gli emirati e i sultanati del Golfo arabo, l’Egitto di Mubarak).

Dopo la caduta dell’ultimo faraone, Mubarak, nel 2011, l’Egitto è occupato dai suoi problemi interni, che gli impediscono di continuare a svolgere un ruolo di primo piano nel mondo arabo, anche se il segretario generale della Lega continua a privilegiare l’Egitto. Non è più un segreto che l’assenza “transitoria” dell’Egitto come leader del mondo arabo ha ridotto il ruolo della Lega. Oltre l’Egitto, nessun paese è in grado di guidare il mondo arabo. Egitto rimane l’unico paese “in grado” di svolgere questo ruolo, dato il suo peso demografico [20], economico e culturale. Su un altro livello, l’Arabia Saudita non è più in una posizione che gli consenta di riempire il vuoto lasciato dal blocco dell’Egitto nei propri problemi e crisi interni, data la fragilità e l’instabilità interna – minaccia sciita nell’est del regno – e il terremoto politico alle porte del regno – la rivoluzione in Bahrain e la guerra civile in Yemen. Nel contempo, i paesi del Maghreb non sono in grado di guidare il mondo arabo, data la loro posizione geografica, all’estremo del mondo arabo, e in secondo luogo dalla natura demografica di quei paesi che non costituiscono in realtà degli agglomerati di masse, come l’Egitto e il Levante, ma piuttosto sono dei centri urbani sparsi lungo la costa mediterranea del Nord Africa. Allo stesso modo, la Tunisia rimane nella scia della sua rivoluzione dei gelsomini, instabile politicamente, e la Libia è rovinata dalla grazia della “missione umanitaria” della NATO.

Pertanto, il ritiro temporaneo dell’Egitto dalla scena degli eventi ha creato un vuoto, politico e diplomatico. Accoppiato con il ritiro delle legioni dell’Impero dall’Iraq, che ha aperto le porte alla potenza iraniana in ascesa. Per “contenere” l’espansione dell’Iran, solo il Qatar sembra in grado di svolgere questo ruolo a livello politico e diplomatico, i quanto concessionario e commerciante dell’Impero – piuttosto che negoziatore -, per la semplice ragione che dal punto di vista militare, il Qatar è in realtà solo una base militare statunitense nella regione.

Per contrastare il ruolo della Lega Araba, le interferenze ostili del Qatar nella crisi siriana e il suo pieno impegno nella cospirazione imperialista volta, in primo luogo, a creare divisioni tra i suoi membri, sulla base della sensibilità religiosa – sunniti contro sciiti – ed etnica – arabi contro persiani – e in secondo luogo, trasformare la Lega in una sorta di Loya Jirga, degli emirati e dei sultanati arabi del Golfo, in cui le monarchie siano giustificate da una ideologia wahhabita islamista, la stessa dei taliban. Più tardi, il nuovo blocco sunnita wahhabita, che include gli emirati e sultanati arabi del Golfo, i taliban dell’Afghanistan e i Fratelli Musulmani dell’Egitto e della Siria – che beneficiano dell’enorme sostegno delle potenze imperialiste – cerca di smembrare l’arco sciita che si estende dall’Iran al Libano, mentre passa attraverso l’Iraq e la Siria, sovvertendo il regime siriano, in primo luogo, e poi isolando l’Iraq filo-iraniano di Maliki, in secondo luogo. Pertanto, Hezbollah in Libano verrebbe totalmente isolato dalla sua retrovia, l’Iran, che faciliterebbe, in una fase successiva, l’invasione dell’Iran.

In breve, l’apertura di un ufficio dei taliban in Qatar mette fine, ufficialmente, alla guerra degli statunitensi contro il terrorismo; e i nemici di ieri diventano gli amici di oggi. Vale a dire che i recenti attacchi terroristici nel cuore della capitale siriana esprimono l’applicazione pratica delle nuove Liaisons dangereuses [21] che sono emerse recentemente tra il vero padrone – l’impero statunitense – rappresentato dal suo concessionario arabo – il Qatar – da una parte e i taliban dall’altra parte – e dietro di loro al-Qaida, naturalmente.

 
La risposta siriana e il declino della Lega araba

Un diplomatico arabo al Cairo ha riferito che durante il ricevimento della delegazione della Lega araba a Damasco, il 26 ottobre, 2011, il presidente siriano Bashar al-Assad aveva accusato il primo ministro del Qatar, Hamad, di essere l’esecutore dei “diktat americani” e gli disse: “Io proteggo la mia gente, con l’aiuto del mio esercito, ma tu hai il tuo per proteggere le basi americane stabilite sulla tua terra (…) Se venite qui come Delegazione della Lega Araba, siete i benvenuti. Tuttavia, se siete i delegati degli americani, sarebbe meglio se smettessimo ogni discussione” [22].

Tuttavia, lo sceicco del Qatar ha dovuto attendere il 10 gennaio per ascoltare il presidente siriano dare la sua risposta finale all’interferenza del Qatar negli affari interni del suo paese. Lo stesso giorno, l’ambasciatore siriano alla Lega Araba, il signor Youssef Ahmed, aveva chiesto allo sceicco del Qatar di dire chi gli aveva dato il mandato di parlare a nome della Siria: “Deve tacere ed evitare ogni ingerenza negli affari siriani“, aveva detto. [23]

In un discorso all’anfiteatro dell’Università di Damasco, il presidente siriano Bashar al-Assad, schierò la sua artiglieria pesante e ha dichiarato l’inizio di una nuova fase della guerra imperialista contro la Siria, quella della contro-offensiva siriana: “Avevamo mostrato pazienza e resistenza in una battaglia senza precedenti nella storia moderna della Siria, e questo ci ha reso più forti, e benché questa lotta comporti grandi rischi e sfide fatalo, la vittoria è vicina se siamo in grado di resistere, di sfruttare i nostri molti punti di forza e di conoscere i punti deboli dei nostri avversari, che sono molti di più”[24], aveva detto.

Durante il suo discorso, il presidente Assad ha attaccato la Lega Araba in diverse occasioni. L’ha accusata di aver accettato di diventare una sorta di vetrina diplomatica, dietro la quale nascondere i veri cospiratori, le potenze imperialiste: “Dopo il fallimento di questi paesi al Consiglio di Sicurezza nel convincere il mondo delle loro menzogne, è stato necessario utilizzare una copertura araba, che diventata una base per esse” [25], ha sottolineato il presidente Assad.

Il presidente Assad ha voluto “inviare” messaggi multipli a più destinatari. Possiamo riassumere questi messaggi in tre punti:

In primo luogo, la Siria non ha paura di una sospensione dalla Lega Araba. Le conseguenze di una siffatta sospensione, appaiono prive di enormi effetti sulla Siria. Per contro, la Siria sarà “libera” dalle pretese della Lega, soprattutto ora che il Qatar ha dirottato il suo ruolo, e che tutte le risoluzioni della Lega sono preparate dietro le quinte dalle potenze imperialiste.

In secondo luogo, senza la Siria, la Lega perde la sua legittimità e validità, mentre il mondo arabo come entità culturale, non può esistere – né in teoria né in pratica – senza la Siria, la culla della cultura e della civiltà arabo-musulmana. A maggior ragione, all’alba della brillante civiltà musulmana della Siria omayyade (661-750). Nelle arti, letteratura, lingua, scienze, storia, memoria collettiva e religioni, la Siria rimane il “cuore” del mondo arabo. Dal punto di vista geografico, senza la Siria, il mondo arabo non può esistere come entità politica, al contrario, sarà lacerato in diverse aree geografiche separate: la penisola arabica, la Valle del Nilo e il Nord Africa. Va notato qui che la Siria, come entità culturale e geografica, va oltre i confini della Repubblica araba siriana, imposti dal colonialismo franco-britannico a seguito dello smembramento dell’Impero Ottomano nel 1918. Stiamo parlando qui della Siria naturale. Il presidente Assad è stato chiaro su questo punto quando ha detto che “se alcuni paesi arabi hanno lavorato per sospendere la nostra arabità dalla Lega, diciamo che avrebbe sospeso piuttosto l’arabismo della Lega, o, senza la Siria, è l’arabismo della Lega che viene sospeso. Mentre alcuni credono di poter far uscire dalla Lega la Siria, non possono far uscire dalla Siria l’identità araba, perché l’arabismo non è una decisione politica, ma un patrimonio e una storia” [26], aveva continuato.

In terzo luogo, la Siria non sarà mai in ginocchio davanti alle potenze imperialiste. Le sanzioni imposte dalle potenze imperialiste e quelle imposte dalle monarchie assolute arabe potrebbero probabilmente avere un impatto negativo sull’economia della Siria. Tuttavia, nel mondo, ci sono altre potenze economiche in ascesa, esterne al sistema di subordinazione verso l’Occidente, come Russia, Cina, India, Iran, vale a dire l’Oriente. Il presidente Assad ha notato che la Siria si sta muovendo verso l’Oriente, e questo l’aveva fatto per anni: “L’Occidente è importante per noi, non possiamo negare questa verità, ma l’Occidente oggi non è quello che è stato un decennio prima (…) I rapporti della maggioranza del mondo con la Siria sono buoni nonostante le circostanze attuali e la pressione occidentale” [38], ha indicato, notando che l’embargo imposto alla Siria e le circostanze politiche e di sicurezza hanno un impatto, ma “potremmo ottenere degli obiettivi riducendo le perdite” [27], aveva precisato.

 
Cosa significa avere ambizioni

In conclusione, riteniamo utile passare rapidamente alle ambizioni “imperiali” dell’emirato del Qatar.
Approfittando della presenza militare delle legioni dell’Impero nel territorio del suo feudo, l’Emiro del Qatar, Hamad, sembra convinto che la seconda resurrezione del Regno di Prussia, per così dire, diventi ogni giorno inevitabile; questa volta non sulle rive della Vistola e per mano degli Hohenzollern, ma lungo il Golfo Persico e per mano degli al-Thani, la famiglia reale del Qatar.

Resta da aggiungere che è vero che il Qatar punta a giocare un ruolo nella regione superiore alla sua reale “dimensione”, è vero che la cornacchia che voleva un giorno emulare l’aquila, non poté ritirarsi. Il pastore viene, lo prende e l’ingabbia bellamente, dandola ai suoi figli per passatempo. [28]

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte: Mondialisation

Note:
RussiaToday
[3] RussiaToday
[4] RussiaToday
[5] Algeria Watch
[6] Algeria Watch
[7] L’accordo di Doha è un accordo politico temporaneo per la sistemazione economica, in una situazione di necessità e senza cambiamento costituzionale, tra l’opposizione libanese pro-siriana e il governo libanese, allora pro-saudita, dopo gli avvenimenti dell’8 maggio 2008, che portarono alla caduta totale della capitale Beirut nelle mani dei combattenti dell’opposizione.
[8] La popolazione totale del Qatar è 1.699.435 persone.
[9] Il dispotismo illuminato è una variante del dispotismo che si è sviluppato nella metà del XVIII secolo, il potere è esercitato col diritto divino dei monarchi, le cui decisioni sono guidate dalla ragione e presentandosi come i primi servi dello Stato. I principali despoti illuminati così mantennero una costante corrispondenza con i filosofi dell’Illuminismo.
[10] Federico II di Prussia ha fatto entrare il suo paese nella corte delle grandi potenze europee. Dopo aver un tempo frequentato Voltaire, è diventato famoso per essere uno dei sostenitori dell’idea del principe dell’illuminismo, quale “despota illuminato”.
[11] Le Grand Soir
[12] Marx, Karl. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.
[13] Info Syrie
[14] La Loya Jirga (Grande Assemblea o riunione di grandi dimensioni), è un termine d’origine Pashto che designa una riunione convocata per prendere decisioni importanti per il popolo afghano.
[15] Sana
[16] L’aquila calva è il simbolo ufficiale del Gran Sigillo degli Stati Uniti d’America.
Derafsh Kaviani è la leggendaria bandiera dell’impero persiano, che indica la Gloriosa bandiera dell’Iran.
[17] Le Favole di La Fontaine, libro II, favola 16.
[18] IL nasserismo è una ideologia pan-araba rivoluzionaria, combinato con un socialismo arabo, ma contrario alle idee marxiste.
[19] Jean-Christophe Victor, «Mondes arabes», Le Dessous des cartes, 10 settembre 2011.
[20] L’Egitto è il paese più popoloso del mondo arabo e del Medio Oriente, con una popolazione di 82 milioni.
[21] Les Liaisons dangereuses è il titolo di un romanzo epistolare scritto da Pierre Choderlos de Laclos, e pubblicato nel 1782.
[22] Algeria Watch
[23] Sana
[24] Sana
[25] Sana
[26] Sana
[27] Sana
[28] Le Favole di La Fontaine. La Cornacchia che volle imitare l’Aquila, libro II, favola 16.
Ricercatrice in Studi francesi (UWO, 2010), Fida Dakroub è membro del “Gruppo di ricerche e studi sulle letterature e le culture del mondo francofono” (GRELCEF) presso la University of Western Ontario. Elle est l’auteur de E’ autrice di “L’Orient d’Amin Maalouf, Écriture et construction identitaire dans les romans historiques d’Amin Maalouf” (2011).

 

 

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